il blog del Don Bosco Ranchibile

venerdì 13 aprile 2018

La pianta segreta

Un uomo duramente provato dalla vita, il quale aveva saputo mantenere sempre integra la sua serenità e il suo coraggio, sentendo avvicinarsi la fine chiamò intorno a sé i figlioli, le nuore, i nipoti e i pronipoti e disse loro:
"Voglio svelarvi un segreto. Venite con me nel frutteto".
Tutti lo seguirono con curiosità e tenerezza, poiché sapevano quanto il vecchio amasse le piante. Con le poche forze rimaste e rifiutando ogni aiuto, l'uomo cominciò a zappare in un punto preciso, al centro del verziere. Apparve un piccolo scrigno. Il vecchio lo aprì e disse: "Ecco la pianta più preziosa di tutte, quella che ha dato cibo alla mia vita e di cui tutti voi avete beneficiato".
Ma lo scrigno era vuoto e la pianticella che l'uomo teneva religiosamente fra le dita era una sua fantasia. Ciononostante nessuno sorrise.
"Prima di morire", proseguì l'uomo, "voglio dare ad ognuno di voi uno dei suoi inestimabili semi".
Le mani di tutti si aprirono e finsero di accogliere il dono.
"È una pianta che va coltivata con cura, altrimenti s'intristisce e chi la possiede ne è come intossicato e perde vigore. Affinché le sue radici divengano profonde, bisogna sorriderle; solo col sorriso le sue foglie diventano larghe e fanno ombra a molti. Infine, i suoi rami vanno tenuti sollevati da terra; solo con l'aiuto di molto cielo diventano agili e lievi a tal punto da non farsi nemmeno notare".
Il vecchio tacque. Passò molto tempo. Nessuno si mosse. Il sole stava per tramontare, quando il figlio maggiore disse per tutti:
"Grazie, padre, del tuo bellissimo dono; ma forse non abbiamo capito bene di che pianta si tratti".
"Sì che lo avete capito. Mentre mi ascoltavate e mi stavate intorno, ognuno di voi ha già dato vita al piccolo seme che vi ho consegnato. È la Pianta della Pazienza". 

Il termine pazienza può avere in italiano diversi significati, ma che rispecchiano tutti l'origine etimologica dal latino patientia e dal greco pathos.
Leggiamo alcuni tra i significati principali dal vocabolario Treccani:
  1. Disposizione d’animo, abituale o attuale, congenita al proprio carattere o effetto di volontà e di autocontrollo, ad accettare e sopportare con tranquillità, moderazione, rassegnazione, senza reagire violentemente, il dolore, il male, i disagi, le molestie altrui, le contrarietà della vita in genere;
  2. Capacità di frenarsi, di contenere l’ira, l’irritazione;
  3. Calma, assiduità, costanza e insieme precisione nell’eseguire un lavoro, nello svolgere un’attività superandone le piccole difficoltà.
Chiusa questa parentesi culturale, ci chiediamo: e a che serve? Che utilità si ricava dall’essere pazienti? Perché spesso ragioniamo proprio in questi termini, quelli dell’utilità. Un po’ meno pensiamo in termini di essere, di costruzione di un’identità personale unica, ma anche sana.
Ci sono evidenti utilità che si ricavano dall’essere pazienti, e si possono facilmente evincere anche limitandosi a prendere in considerazione le tre definizioni citate:
chi è paziente è tranquillo, sta bene con se stesso e con gli altri e sa che a nulla serve lamentarsi dei disagi o delle contrarietà della vita: il lamento genera un malessere maggiore, non lenisce il dolore;
chi è paziente non cede all’ira, sa che è distruttiva e autodistruttiva: presi dall’ira possiamo fare del male agli altri ma anche noi stessi ne ricaviamo un danno sia fisico (il palermitano “un fari a bile” descrive benissimo quest’aspetto) sia interiore (perdiamo la pace);
chi è paziente nelle sue attività riesce a poco a poco, con cura e precisione, a raggiungere risultati straordinari.
Ma c’è ancora un aspetto della pazienza che definirei (e penso di non sbagliarmi) superiore: la pazienza è una di quelle caratteristiche che ci fa più simili a Dio. Perché Dio è “paziente e misericordioso”, ci dicono le scritture, “lento all’ira e grande nell’amore”. Perché Dio è amore.
E chi ama è paziente. Come Dio.
Ricordo una delle prime omelie di Papa Francesco, una domenica all’Angelus.
Raccontava del suo incontro con una vecchietta alla quale, ancora vescovo a Buenos Aires, aveva chiesto: “Nonna, lei è sicura che Dio ci perdona?”. “Certo”, disse l’anziana donna, “Dio perdona tutto!”. “E lei come lo sa?”, “Se Dio non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe!”.
Straordinaria testimonianza di una fede semplice e forte!
Il mondo esiste ancora perché Dio è paziente.
Da quello a cui assistiamo sempre più frequentemente nella storia di tutti i giorni forse dovremmo chiederci se il mondo non rischia la distruzione perché gli uomini non sono altrettanto pazienti.
Ma, ancora una volta, non possiamo puntare il dito addosso agli altri. Dobbiamo guardare a noi stessi e cominciare a costruire un mondo diverso a partire dalla nostra coscienza: io, sono paziente?

venerdì 28 luglio 2017

Il diamante

(Dal buongiorno al biennio del 27 ottobre 2016)

C’era una volta un monaco che viveva poveramente e passava di villaggio in villaggio parlando di Dio e della sua bontà. Si accontentava di poco e spesso la sua cena consisteva in un pezzo di pane e un po’ d’acqua bevuta alla fontana.
Una sera il monaco arrivò in prossimità di un villaggio e, per non disturbare nessuno a quell’ora, si sistemò un giaciglio sotto un albero.
Stava recitando le preghiere della sera quando gli si fece incontro, sudato ed ansimante, un abitante del villaggio che gridava: “La pietra! La pietra! Dammi la pietra preziosa!”
“Che pietra?”, chiese il monaco.
“La notte scorsa mi è apparso in sogno il Signore”, disse l’abitante del villaggio, “e mi ha detto che se fossi venuto alla periferia del villaggio al crepuscolo avrei trovato un monaco che mi avrebbe dato una pietra preziosa e mi avrebbe reso ricco per sempre”.
Tranquillo e sereno, il monaco rovistò nel suo sacco e tirò fuori una grossa pietra scintillante.
“Probabilmente il Signore intendeva questa” disse porgendo la pietra all’uomo. “L’ho trovata sul sentiero della montagne qualche giorno fa. Tienila pure”.
L’uomo fissò meravigliato la pietra. Era un diamante. Certamente il diamante più grosso del mondo perché aveva le dimensioni di una testa di uomo.
Con gli occhi luccicanti l’abitante del villaggio afferrò il diamante e corse via. Posò la pietra su un tavolino vicino al letto e si coricò. Mille pensieri gli tormentavano la mente. Si girò e rigirò nel letto senza poter dormire.
Il giorno dopo allo spuntar dell’alba, l’uomo tornò dal monaco, lo sveglio e gli disse: “Dammi la ricchezza che ti permette di dar via così facilmente questo diamante”.

Cosa ci insegna questa storia? Forse non sempre quello che noi consideriamo ricchezza è la ricchezza più grande che possiamo desiderare. Forse il bene più grande non è quello più appariscente ma quello più nascosto. Un bene tale da renderci veramente felici e che non ci crea inquietudine o angoscia.
I beni possono essere di due tipi: quelli materiali e quelli interiori (o spirituali).
Dove sta la differenza tra queste due categorie? I primi, se decidiamo di donarli agli altri, li perdiamo. Siamo costretti a farne a meno e, forse per questo, siamo spinti a non privarcene affatto, accrescendo così il nostro egoismo.
I beni spirituali , invece, sono strani, perché più li doniamo e più li vediamo crescere.
Chi dona ciò che conosce non per questo diventerà ignorante. Chi dona gioia sarà ancora più felice, non sarà certo triste.  Chi ama non rimarrà senza amore, anzi il suo cuore scoppierà di amore.
Ci sono beni che possiamo donare e che ci permetteranno di essere realmente ricchi.

Cerchiamo quella ricchezza che ci permette di donare facilmente.

mercoledì 26 luglio 2017

Ambra


M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare
In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".
Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".
Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.
Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.
Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.
Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.
Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.
Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.
Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».

mercoledì 28 giugno 2017

Il clown 🤡


(Dal buongiorno ai ragazzi del biennio del 20 ottobre 2016)

Nello studio di un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben equilibrato, serio ed elegante. Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell’uomo era intimamente abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua ed assillante. Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e, al termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente: «Perché questa sera non va al circo che è appena arrivato nella nostra città? Nello spettacolo si esibisce un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo: tutti parlano di lui, perché è unico. Le farà bene, vedrà».
Allora quell’uomo scoppiò in lacrime, dicendo: «Quel clown, sono io».

E’ una storia vera. Tanto semplice quanto profonda. E’ vera non solo per i due protagonisti, ma per ciascuno di noi. Perché tutti noi, ogni mattino, siamo costretti ad indossare una maschera per renderci presentabili al mondo. Indossiamo la maschera che ci attribuisce un ruolo, quello che ci permette di essere accolti, accettati dagli altri. Non è un male desiderare di essere accettati dagli altri: non saremmo esseri umani. Ma il problema diventa evidente nel momento in cui in nome di questo “essere accolti” vendiamo, o svendiamo la nostra dignità. 
Vi siete chiesti perché spesso abbiamo paura della solitudine? Credo che il motivo sia essenzialmente questo: quando siamo soli ci troviamo di fronte a noi stessi, con i nostri dubbi e i nostri interrogativi e corriamo un grande rischio, quello di conoscerci realmente, di scoprire chi siamo. Sì, il rischio di accorgerci di avere usato continuamente delle maschere che hanno ingannato gli altri ma anche noi! E così è più comodo non stare soli e non correre questo rischio.
Non è dai libri che ho ricavato queste considerazioni che sanno di “psicologico”. Io ho visto. Proprio qui, in questa nostra scuola. 
Ho visto alcuni tra voi spavaldi, coraggiosi come dei lupi, quando sono in branco. Ma, da soli, li ho visti girare sospettosi e impauriti anche dalla propria ombra. 
Ho visto altri che fanno di tutto per trasformare la propria classe in un continuo carnevale. Poi li ho trovati a girovagare soli, fra le colonne del cortile, con le facce rabbuiate, tristi, tanto “ a che serve la vita senza l’applauso, il riso, l’approvazione degli altri?”. 
Ho visto alcuni tra voi con l’abito del duro, dello spaccone, del coraggioso. Li ho visti piangere e singhiozzare come i bambini davanti una responsabilità, una piccola difficoltà che anche la scuola può presentare. Che ne sarà di loro quando la vita presenterà dei conti ben più salati? 
Bisogna avere un po’ di coraggio. La paura più grande non è quella che proviamo nei confronti degli altri ma quella di noi stessi. Già bisogna avere un po’ di coraggio e rischiare di conoscerci. E poi accettarci, così come siamo, con i nostri limiti, pregi e difetti. E non credete alla facile illusione di un mondo adulto che (anche qui tra voi) vi presenta scene di vita riuscita, meravigliosa e senza difficoltà... spesso è solo apparenza, spesso non è la propria vita.
Ricordate lo straordinario insegnamento del Piccolo principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. 
Ma questa è un’altra storia.


sabato 24 giugno 2017

La pietra azzurra

(Dal buongiorno ai ragazzi del biennio del 13 ottobre 2016)

Il gioielliere era seduto alla scrivania e guardava distrattamente la strada attraverso la
vetrina del suo elegante negozio. Una bambina si avvicinò al negozio e schiacciò il naso
contro la vetrina. I suoi occhi colore del cielo si illuminarono quando videro uno degli
oggetti esposti.
Entrò decisa e puntò il dito verso uno splendido collier di turchesi azzurri.
«E’ per mia sorella. Può farmi un bel pacchetto regalo?».
Il padrone del negozio fissò incredulo la piccola cliente e le chiese: «Quanti soldi hai?».
Senza esitare, la bambina, alzandosi in punta di piedi, mise sul banco una scatola di latta,
la aprì e la svuotò. Ne vennero fuori qualche biglietto di piccolo taglio, una manciata di
monete, alcune conchiglie, qualche figurina. «Bastano?» disse con orgoglio. «Voglio fare
un regalo a mia sorella più grande. Da quando non c’è più la nostra mamma, è lei che ci fa
da mamma e non ha mai un secondo di tempo per se stessa. Oggi è il suo compleanno e
sono sicura che con questo regalo la farò molto felice. Questa pietra ha lo stesso colore
dei suoi occhi».
L’uomo entra nel retro e ne riemerge con una splendida carta regalo rossa ed oro con cui
avvolge con cura l’astuccio.
«Prendilo», disse alla bambina. «Portalo con attenzione». La bambina partì orgogliosa
tenendo il pacchetto in mano come un trofeo.
Un’ora dopo entrò nella gioielleria una bella ragazza con la chioma color miele e due
meravigliosi occhi azzurri. Posò con decisione sul banco il pacchetto che con tanta cura il
gioielliere aveva confezionato e chiese: «Questa collana è stata comprata qui?». «Sì,
signorina».
«E quanto è costata?». «I prezzi praticati nel mio negozio sono confidenziali, riguardano
solo il mio cliente e me».
«Ma mia sorella aveva solo pochi spiccioli. Non avrebbe mai potuto pagare un collier
come questo!».
Il gioielliere prese l’astuccio, lo chiuse con il suo prezioso contenuto, rifece con cura il
pacchetto regalo e lo consegnò alla ragazza. «Sua sorella ha pagato. Ha pagato il prezzo
più alto che chiunque possa pagare: ha dato tutto quello che aveva».


“Tutto quello che aveva”.
Se si ama si è disposti a donare. Chiediamoci se c’è qualcuno a cui saremmo disposti a
dare tutto quello che abbiamo e comprenderemo quanto amore proviamo per questa
persona.
Chi tra noi non sarebbe disposto a dare tutto quello che ha per far tornare una persona
cara che non c’è più? Niente vale quanto una persona che amiamo davvero.
Diverso è il discorso quando si tratta di qualcuno che incontriamo per caso, che non
conosciamo, che in qualche modo con la sua presenza... ci disturba.
Già! Al di là di certe espressioni sentimentali, il nostro cuore è spesso così piccolo…
Ci viene così naturale spendere dieci euro per partecipare ad una festa, per comprarci
qualcosa che ci piace, per soddisfare piccoli capricci. Ma non sempre è altrettanto facile
essere generosi con chi non è fortunato come noi.
Ma non è mai troppo tardi per guardarci attorno, per accorgerci degli altri, per cambiare, per amare.
Non è mai troppo tardi.

martedì 13 giugno 2017

Il buongiorno... si sente al mattino!

(dal buongiorno ai ragazzi dl biennio del 22 settembre 2016)


È con piacere vivo che, anche quest’anno, ho accettato l’invito del catechista (don Vincenzo) di raccontarvi qualcosa. Più o meno... una volta alla settimana.
Bella questa tradizione del “buongiorno”! Questo piccolo ritaglio di tempo che possiamo dedicare ad una riflessione, una storia, uno spunto che tracci una piccola linea e che ognuno di noi può spontaneamente utilizzare come “guida” per dare un senso alla giornata.
Perché di questo si tratta: fare in modo che le giornate non siano anonime, né tantomeno vuote o addirittura inutili.
Perché i giorni possono avere un sapore più o meno buono. Le cose accadono ma sono le persone che hanno il potere di dare loro un sapore. Come il sale...

C’era una volta un re che rispondeva al nobile nome di Enrico il Saggio. Aveva tre figlie che si chiamavano Alba, Bettina e Carlotta. In segreto, il re preferiva Carlotta. Tuttavia, dovendo designare una sola di esse per la successione al trono, le fece chiamare tutte e tre e domandò loro: “Mie care figlie, come mi amate?”.
La più grande rispose: “Padre, io ti amo come la luce del giorno, come il sole che dona la vita alle piante. Sei tu la mia luce!”.
Soddisfatto, il re fece sedere Alba alla sua destra, poi chiamò la seconda figlia.
Bettina dichiarò: “Padre, io ti amo come il più grande tesoro del mondo, la tua saggezza vale più dell’oro e delle pietre preziose. Sei tu la mia ricchezza!”.
Lusingato e cullato da questo filiale elogio, il re fece sedere Bettina alla sua sinistra.
Poi chiamò Carlotta. “E tu, piccola mia, come mi ami?”, chiese teneramente.
La ragazza lo guardò fisso negli occhi e rispose senza esitare: “Padre, io ti amo come il sale da cucina!”.
Il re rimase interdetto: “Che cosa hai detto?”.
“Padre, io ti amo come il sale da cucina”.
La collera del re tuonò terribile: “Insolente! Come osi, tu, luce dei miei occhi, trattarmi così? Vattene! Sei esiliata e diseredata!”.
La povera Carlotta, piangendo tutte le sue lacrime, lasciò il castello e il regno di suo padre. Trovò un posto nelle cucine del re vicino e, siccome era bella, buona e brava, divenne in breve la capocuoca del re.
Un giorno arrivò al palazzo il re Enrico. Tutti dicevano che era triste e solo. Aveva avuto tre figlie ma la prima era fuggita con un chitarrista californiano, la seconda era andata in Australia ad allevare canguri e la più piccola l’aveva cacciata via lui…
Carlotta riconobbe subito suo padre. Si mise ai fornelli e preparò i suoi piatti migliori. Ma invece del sale usò in tutti lo zucchero.
Il pranzo divenne il festival delle smorfie: tutti assaggiavano e sputavano poco educatamente nel tovagliolo. Il re, rosso di collera, fece chiamare la cuoca.
La dolce Carlotta arrivò e soavemente disse: “Tempo fa, mio padre mi cacciò perché avevo detto che lo amavo come il sale di cucina che dà gusto a tutti i cibi. Così, per non dargli un altro dispiacere, ho sostituito il sale importuno con lo zucchero”.
Il re Enrico si alzò con le lacrime agli occhi: “E il sale della saggezza che parla per bocca tua, figlia mia. Perdonami e accetta la mia corona”.
Si fece una gran festa e tutti versarono lacrime di gioia: erano tutte salate, assicurano le cronache del tempo.

Molti anni fa qualcuno aveva detto: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore con che cosa lo si potrà rendere salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato...” (Mt. 5,13ss).

Ecco. Tutto qui. 

Il buongiorno si sente al mattino.
Questo piccolo spazio quotidiano ha un potere magico. Non perché sia io a parlare, o qualcun altro. No! Ma perché, quando meno uno se lo aspetta, arriva il giorno in cui una frase, un pensiero, un’idea... entra con forza sorprendente nella vita di qualcuno di noi e la trasforma. Dà un sapore diverso. Come il sale.
Nella nostra epoca degli aforismi, permettetemi di regalarvi tre citazioni tra le tantissime che sottolineano l’importanza del mattino. Poi scegliete quella che più vi piace.

  1. Quando fai qualcosa di nobile e bello e nessuno lo nota, non essere triste. Il sole ogni mattina è uno spettacolo bellissimo e tuttavia la maggior parte del pubblico dorme ancora. (John Lennon)
  2. Quando ci si deve alzare alle 7 in punto, e non hai fatto il tema che ti era stato assegnato, le 6:59 sono il momento peggiore della giornata! (Charlie Brown)
  3. Ogni mattina noi nasciamo nuovamente. Ciò che decidiamo di fare oggi è ciò che conta davvero. (Buddha)



lunedì 12 giugno 2017

Operazione nostalgia. Il ritorno del blogger 😊

Tante attività richiedono altrettanto impegno. E tempo. Tanto tempo.
Così, gli impegni scolastici ed extra, la collaborazione alle nuove pagine social della nostra scuola (che vi invito calorosamente a visitare) e alcuni impegni di carattere personale mi hanno tenuto distante da questo blog.
Ma non ho mai rinunciato ed ora, confidando in qualche piccola disponibilità di tempo, vorrei riprendere "le righe" troppo a lungo abbandonate.
La nostalgia era davvero tanta.
I percorsi non si sono comunque fermati e adesso potremo usufruire dei diversi "buongiorno" proposti ai nostri alunni del biennio, durante questo anno scolastico appena concluso, per ritagliarci un piccolo angolo di riflessione, per il benessere dello spirito.
Per chi vorrà...

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Il calendario dell'avvento

Avvento, tempo di attesa. Tempo di attese. Sono tante le attese che ognuno di noi porta nel proprio cuore. C’è chi spera in un domani miglio...