Le storie belle meritano di essere raccontate.
Come quella degli "eroi della foresta che cresce" che lavorano nel reparto di cardiologia dell'ospedale Paolo Borsellino di Marsala.
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Come quella degli "eroi della foresta che cresce" che lavorano nel reparto di cardiologia dell'ospedale Paolo Borsellino di Marsala.
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Da che punto guardi il mondo tutto dipende... recitava, anni fa, un tormentone che per alcuni mesi occupò i primi posti di molte classifiche musicali.
Ma se il nostro sguardo non si limita solo alle cose, scruta anche le persone ed il loro operato, facendone seguire anche giudizi affrettati o avventati, allora la questione diventa molto seria.
Una coppia di sposi novelli andò ad abitare in una bella zona molto tranquilla della città. Una mattina, mentre bevevano il caffè insieme, il giovane marito si accorse, guardando attraverso la finestra aperta, che una vicina stendeva il bucato sullo stendibiancheria dal terrazzo e disse: "Ma guarda com'è sporca la biancheria di quella vicina! Non è capace di lavare? O forse, ha la lavatrice vecchia che non funziona bene? Oppure dovrebbe cambiare detersivo!... Ma qualcuno dovrebbe dirle di lavare meglio! O dovrebbe insegnarli come si lavano i panni!". La giovane moglie guardò e rimase zitta.
La stessa scena e lo stesso commento si ripeterono varie volte, mentre la vicina stendeva il suo bucato al sole e al vento perché si asciugasse.
Dopo qualche tempo, una mattina l'uomo si meravigliò nel vedere che la vicina stendeva la sua biancheria pulitissima e disse alla giovane moglie: "Guarda, la nostra vicina ha imparato a fare il bucato! Chi le avrà detto come si fa?".
La giovane moglie gli rispose: "Caro, nessuno le ha detto e le ha fatto vedere.
Semplicemente, questa mattina, io mi sono alzata presto come sempre per prepararti la colazione, ho preso i tuoi occhiali e ho pulito le lenti!".
...Ed è proprio così anche nella vita...
Non solo "il punto da cui guardiamo il mondo" è importante per farci comprendere la soggettività ed il limite del nostro giudizio, ma anche il modo in cui guardiamo... che spesso fa precedere un pre-giudizio.
Se già in partenza siamo convinti di essere un po' meglio degli altri e qualche gradino più in alto, diventa quasi naturale assumerci il ruolo di giudici...
Non così ci insegna Gesù che, attraverso uno dei suoi famosi esempi paradossali ci dice:
"Prima di togliere la pagliuzza nell'occhio di tuo fratello, togli la trave che è nel tuo occhio"!
Spesso, più o meno inconsapevolmente, il male che vediamo negli altri è già dentro di noi.
Ammetterlo è difficile, ma pulire le lenti con cui guardiamo il mondo non può farci che bene!
Perdonare qualcuno, che ci ha fatto un torto, è fuori moda.
Siamo convinti che in una società come la nostra, dove si va avanti a gomitate, uno dei principi base sia “farsi rispettare”, non farsi calpestare. E chi ci manca di rispetto, in un modo o in un altro, dovrà pagare. Lo insegniamo persino ai nostri figli, ai nostri bambini: “Fatti rispettare, non essere troppo buono perché i buoni spesso vengono scambiati per fessi. Non fatti mettere i piedi sulla testa!”.
Crescendo, questo principio si trasforma in “rancore”.
Un giorno il saggio diede al discepolo un sacco vuoto e un cesto di patate.
"Pensa a tutte le persone che hanno fatto o detto qualcosa contro di te recentemente, specialmente quelle che non riesci a perdonare. Per ciascuna, scrivi il nome su una patata e mettila nel sacco".
Il discepolo pensò ad alcune persone e rapidamente il suo sacco si riempì di patate.
"Porta con te il sacco, dovunque vai, per una settimana" disse il saggio. "Poi ne parleremo".
Inizialmente il discepolo non pensò alla cosa. Portare il sacco non era particolarmente gravoso. Ma dopo un po', divenne sempre più un gravoso fardello. Sembrava che fosse sempre più faticoso portarlo, anche se il suo peso rimaneva invariato.
Dopo qualche giorno, il sacco cominciò a puzzare. Le patate marce emettevano un odore acre. Non era solo faticoso portarlo, era anche sgradevole.
Finalmente la settimana terminò. Il saggio domandò al discepolo: "Nessuna riflessione sulla cosa?".
"Sì Maestro", rispose il discepolo. "Quando siamo incapaci di perdonare gli altri, portiamo sempre con noi emozioni negative, proprio come queste patate. Questa negatività diventa un fardello per noi, e dopo un po', peggiora."
"Sì, questo è esattamente quello che accade quando si coltiva il rancore. Allora, come possiamo alleviare questo fardello?".
"Dobbiamo sforzarci di perdonare".
"Perdonare qualcuno equivale a togliere una patata dal sacco. Quante persone per cui provavi rancore sei capace di perdonare?".
"Ci ho pensato molto, Maestro, disse il discepolo. "Mi è costata molta fatica, ma ho deciso di perdonarli tutti".
Diciamolo sinceramente: perdonare qualcuno, soprattutto quando ciò che ha commesso ha una particolare gravità, non è umano. E’ sovraumano. Trascende le nostre capacità naturali, contraddice il nostro istinto. Questo è ancora più evidente se leggiamo la definizione di “perdono” sul dizionario.
Perdonare: Non tenere in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando a propositi di vendetta, alla punizione, a qualsiasi possibile rivalsa, e annullando in sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa o del danno (Treccani, dizionario online).
Rinunciare alla vendetta, alla rivalsa, potremmo anche riuscirci... ma annullare ogni risentimento, ci sembra proprio troppo.
Anche per piccoli torti, siamo a volte in grado di portarci dentro emozioni negative generate dal rancore per giorni, mesi, a volte anche anni. Ma quel peso grava tutto sulle nostre spalle e solo noi possiamo decidere di metterlo giù.
Quando avvertiamo la gravità di una situazione simile, forse non dovremmo chiederci solo se la persona che ha commesso un torto merita il nostro perdono oppure il nostro disprezzo. Forse dovremo chiederci se noi meritiamo di vivere con questo carico di sofferenza addosso oppure con la leggerezza della libertà.
Perché il perdono ci rende liberi.
I ragazzi dell'Oratorio di Santa Maria avevano preparato una recita sul mistero del Natale. Avevano scritto le battute degli angeli, dei pastori, di Maria e di Giuseppe. C'era persino una particina per il bue e l'asino. Ma quando suor Renata vide le prove dello spettacolo sbottò: "Avete dimenticato i Re Magi!".
Enzo il regista si mise le mani nei capelli, mancava un solo giorno alla rappresentazione. Dove trovare i tre Re Magi così sui due piedi?
Fu Don Pasquale a trovare la soluzione."Cerchiamo tre persone della parrocchia! - disse - Spieghiamo loro che devono fare i Re Magi moderni, vengono con i loro abiti di tutti i giorni e portano un dono a Gesù Bambino. Un dono a loro scelta. Tutto quello che devono fare è spiegare con franchezza il motivo che li ha spinti a scegliere proprio quel particolare dono".
La squadra dei ragazzi si mise in moto e nel giro di due ore erano stati trovati i Re Magi sostituti.
La sera di Natale, il teatrino parrocchiale era affollato.
I ragazzi ce la misero tutta e lo spettacolo filò via liscio e applaudito. Senza che nessuno lo potesse prevedere il momento più commovente divenne l'entrata dei Re Magi.
Il primo era un uomo di cinquant'anni, padre di cinque figli: portava una stampella. La posò accanto alla culla e disse: "Tre anni fa ho avuto un brutto incidente d'auto. Uno scontro frontale. Fui ricoverato all'ospedale con parecchie fratture. Nessuno azzardava un pronostico. I medici erano pessimisti sul mio recupero. Da quel momento cominciai ad essere felice per ogni più piccolo progresso: poter muovere la testa o un dito, alzarmi seduto da solo e così via. Quei mesi in ospedale mi cambiarono. Sono diventato umile scopritore di quanto possiedo. Sono riconoscente per le cose piccole e quotidiane. Porto a Gesù Bambino questa stampella in segno di riconoscenza".
Il secondo Re era in verità una regina, madre di due figli. Portava un catechismo. Lo posò accanto alla culla e disse: "Finché i miei bambini erano piccoli e avevano bisogno di me, mi sentivo realizzata. Poi sono cresciuti e ho cominciato a sentirmi inutile. Ma ho capito che era inutile commiserarmi. Ho chiesto al parroco di fare catechismo ai bambini. Così ritrovai un senso alla mia vita. Mi sento come un apostolo, un profeta: aprire ai nostri bambini le frontiere dello spirito è un'attività che mi appassiona. Sento di nuovo di essere importante".
Il terzo Re era un giovane. Portava un foglio bianco. Lo pose accanto alla culla del Bambino e disse: "Mi chiedevo se era il caso di accettare questa parte. Non sapevo proprio cosa dire, né cosa portare. Le mie mani sono vuote. Il mio cuore è colmo di desiderio di felicità e di significato per la vita. Dentro di me si ammucchiano domande, inquietudini, attese, errori, dubbi. Non ho niente da presentare. Il mio futuro mi sembra così vago. Ti offro questo foglio bianco, Bambin Gesù. Io so che sei venuto per portare speranze nuove. Vedi, io sono interiormente vuoto, ma il mio cuore è aperto e pronto ad accogliere le parole che vuoi scrivere sul foglio bianco della mia vita. Ora che ci sei Tu tutto cambierà...".
Poco da aggiungere.
Il Natale continua ad essere la festa di compleanno dove il festeggiato non riceve regali ma da cui i regali vengono pretesi. E non penso solo a quelli che troveremo sotto l'albero. Penso alle tante richieste che spesso affollano le nostre preghiere e che potremmo riassumere in un'unica formula: "Dio, fa'che io sia felice. Perché ho diritto di essere felice".
Il mondo gira attorno a noi. E spesso anche Dio.
Ricordo che lo scorso anno, durante una attività di religione, avevo chiesto ai ragazzi di terza di immaginare un ipotetico incontro con Gesù. Ho letto riflessioni interessanti, belle, alcune anche divertenti come quella di un alunno che scriveva: "Non ho mai pensato ad un incontro con Gesù, ma mi piacerebbe che avvenisse quando ho la versione di latino!". Mica stupido.
Incuriosito dal pensiero dei più piccoli ho fatto la stessa domanda alla piccola di casa mia, 7 anni.
"Come immagini un incontro con Gesù? ".
"Papà, fammi pensare..." e, poco dopo, "mi piacerebbe andare a cena con lui!".
"A cena?". "Sì, a cena".
"E che cosa mangereste?". "Quello che vuole lui!".
"E perché non quello che piace a te?".
"Perché gli voglio bene, e voglio che sia felice!".
Più vado avanti negli anni e più mi sembra di capire, anche se a poco a poco e con difficoltà, perché nel Vangelo Gesù ci dice che il Regno di Dio è per i bambini e per quelli che sono in grado di farsi come loro.
Pensiamo di avere diritto di essere felici ma abbiamo escluso Dio dagli "aventi diritto".
E fino a quando Gesù bambino sarà solo un romantico ornamento dei nostri presepi, fino a quando Gesù lo percepiamo come un qualcosa in più, anche solo un supporto psicologico per confortarci dai drammi della "vita reale", stiamo solo perpetrando una recita che va avanti da due millenni.
Se incontriamo davvero Gesù la vita cambia. E se ci credessimo anche un poco non dovremmo avere pace fino a quando questo incontro, reale incontro, non avvenga.
Allora, probabilmente, ogni piccola cosa della nostra vita riacquisterebbe il giusto peso, il giusto valore; tutta la nostra esistenza ci sembrerebbe piena di significato e non ci sentiremmo inutili. Su quel "foglio bianco" comincebbero a tracciarsi dei segni importanti...
Gesù non ha bisogno di noi per essere felice, è vero.
Ma il desiderio di vedere qualcuno felice è la misura del nostro amore per lui.
È la percezione della sua presenza nella nostra quotidianità.
Quindi, dal profondo del cuore vi auguro di vivere questo incontro.
L'incontro della vita!
Buon Natale.
Nel XIX secolo, in una cittadina inglese, dopo mesi di lavoro, una schiera di muratori aveva terminato la costruzione di un’altissima ciminiera per una fabbrica. L’ultimo operaio era sceso dalla vertiginosa impalcatura di legno. L’intera popolazione della città era là per festeggiare l’evento e soprattutto per assistere alla caduta spettacolare dell’impalcatura.
Appena il castello di assi e travi crollò tra il frastuono, la polvere, le risate e le grida della gente, con stupore si vide spuntare sulla sommità della ciminiera la testa di un muratore che aveva appena terminato il lavoro nel colletto interno.
La folla degli spettatori ammutolì di colpo e l’orrore cominciò a serpeggiare in mezzo a loro: “Ci vorranno giorni per alzare un’altra impalcatura…E di qui ad allora quel muratore sarà morto di freddo… o di sete… o di fame…”.
In mezzo alla gente c’era anche la mamma del muratore, che sembrava disperata… Ma poi ad un tratto si fece largo e arrivata sotto la ciminiera fece un segno al figlio e gridò: “Giovanni, togliti le calze!”. Un mormorio si diffuse: “Poverina, il dolore le ha fatto perdere la ragione…”.
Ma la donna insistette. Per non preoccuparla di più, Giovanni si tolse la calza. La donna gridò di nuovo: “Rovesciala e cerca il nodo, poi tira”.
L’uomo ubbidì e ben presto si trovò in mano una grossa manciata di lana. “Fai lo stesso con l’altra e lega insieme i fili e poi buttane giù il capo. E tieni l’altro ben saldo fra le dita”.
Giovanni eseguì. Al filo di lana fu legato un filo di cotone che l’uomo tirò fino in cima. Poi al filo di cotone fu attaccata una cordicella e alla cordicella una corda e infine un robusto cavo.
Giovanni lo fissò saldamente alla ciminiera e scese in mezzo agli “urrà” della gente.
La nostra vita e la nostra salvezza dipendono da cose piccole e fragili, che molto probabilmente già possiediamo. Basta pensarci.
Ma c'è un'altra cosa di cui vorrei parlarvi e so che potrei diventare impopolare... ma è un rischio che devo correre.
Si tratta di un piccolo filo, fragile, come quello delle calze di Giovanni, ma di una potenza straordinaria.
Capace di salvare una vita? Sì, direi proprio di sì!
Costellato di una serie di grani, questo filo forma quella che tutti conosciamo come "corona del rosario".
Quasi tutte le religioni hanno un "rosario"... Cambia il numero dei grani, cambiano le formule utilizzate per pregare, ma il concetto è sempre uguale... ripetere una preghiera per trascorrere del tempo in profonda unità con Dio e in meditazione.
Qualche giorno fa mia figlia mi ha chiesto: "Papà, come funziona il rosario?".
Le ho spiegato la struttura: i "misteri", i riferimenti alla storia sacra, le preghiere iniziali e poi le cinquanta "Ave, Maria" recitate sgranando la corona.
""Cinquanta Ave, Maria? Ma sarà noiosissimo!", ha esclamato la piccola.
"Lo credi davvero?", le ho chiesto, e poi "tu mi vuoi bene?".
"Certo che ti voglio bene!".
"Quante volte pensi di riuscire a ripetermelo senza stancarti o annoiarti?".
"Potrei ripetertelo all'infinito... come faccio ad annoiarmi?".
"E quante volte vorresti sentirti ripetere da me che ti voglio bene?".
"Vorrei che non smettessi mai!"
"È così che funziona tra persone che si amano... ma spesso siamo troppo pigri!"
Il punto è questo: quanto amiamo veramente!
Lo avete provato e lo proverete ancora: quando si è innamorati non c'è noia che tenga, siamo ripetitivi all'inverosimile, non ci stanchiamo e non pensiamo affatto di essere banali.
Così, sarebbe opportuno chiedersi: quanto amiamo davvero Dio? Quanto la nostra fede non si limita ad essere pura formalità? Un'etichetta?
E Maria? Quanto entra a far parte della nostra vita?
Siamo in grado di apprezzare questo stupendo dono che Gesù ci ha fatto proprio in punto di morte? Una madre... e che madre.
Don Bosco ci ha assicurato che dal momento in cui siamo entrati in una sua casa, (e questa è casa sua!), Maria ci accoglie in una speciale protezione. Una vera grazia!
La festa dell'Immacolata, alla quale cerchiamo di prepararci bene e che celebreremo a breve, sia per noi occasione di riflessione su questa straordinaria relazione madre-figlio che ci coinvolge in modo particolare e che spesso, per pigrizia o per superbia, trascuriamo.
Qualunque cosa accada, una madre dal cuore sano non smetterà mai di amare il proprio figlio e sarà pronta a gettarsi sui carboni ardenti perché lui sia felice.
Se questa mamma poi è la Madre di Dio e la madre che Dio ha voluto per noi...
Impariamo ad amarla. E impariamo a dirglielo tutte le volte che possiamo.
Non sarà noioso, se è amore vero.
Una volta un dromedario,
incontrando un cammello,
gli disse: - Ti compiango,
carissimo fratello;
saresti un dromedario
magnifico anche tu
se solo non avessi
quella brutta gobba in più.
Il cammello gli rispose:
- Mi hai rubato la parola.
E' una sfortuna per te
avere una gobba sola.
Ti manca poco ad essere
un cammello perfetto:
con te la natura
ha sbagliato per difetto.
La bizzarra querela
durò tutto una mattina.
In un canto ad ascolta
restava un vecchio beduino
e tra sé, intanto, pensava:
"Poveretti tutti e due,
ognun trova belle
soltanto le gobbe sue.
Così spesso ragiona
al mondo tanta gente
che trova sbagliato
ciò che è solo differente!"
(Gianni Rodari)
In questi ultimi giorni si sono verificati dei fatti tristissimi.
Non meno tristi e spesso inappropriate si sono rivelate certe discussioni intavolate dagli avvoltoi dell'informazione, gli opinionisti di professione e non. Sui social network imperversano commenti di ogni genere che riesumano fantasmi e ideologie del passato. E già si inneggia a nuove crociate, a guerre, distruzione, a nuove barriere e muri da elevare perché è necessario difendersi da chi è "sbagliato", perché diverso da noi.
È questo il massimo del progresso che la nostra civiltà ha saputo realizzare? O dovremmo credere che al progresso tecnologico ed economico non è seguito mai un progresso "umano"?
Concordo con l'opinione di Gramellini che su La Stampa riporta ciò che Antoine Leiris scrive su Facebook ai terroristi che al Bataclan hanno assassinato sua moglie, dicendo che in quelle parole palpita il senso di "ciò che chiamiamo occidente":
«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
C'era una volta un possente taglialegna in cerca di lavoro. Dopo aver girato diverse città, il taglialegna trovò finalmente impiego presso un importante commerciante di legno. L'ottima paga e le eccellenti condizioni di lavoro convinsero il taglialegna a dare il meglio di sé.
Il primo giorno il capo diede al nuovo arrivato un'ascia e gli indicò l'area del bosco dove avrebbe dovuto lavorare. Al termine della giornata, il possente taglialegna frantumò il record degli altri dipendenti, raggiungendo i 18 alberi abbattuti. Il capo si congratulò sinceramente con lui e questo motivò ancor più il taglialegna.
Il secondo giorno il taglialegna lavorò con tutte le sue energie, ma al tramonto gli alberi abbattuti furono 15. Per nulla demoralizzato, il terzo giorno il taglialegna si impegnò con ancora più vigore, ma anche questa volta il numero di alberi calò: 10 unità. Per quanta energia mettesse nel suo lavoro, giorno dopo giorno, il numero di alberi abbattuti continuò a calare inesorabilmente.
Mortificato, il taglialegna sì presentò dal capo scusandosi per lo scarso rendimento. Al che l'esperto commerciante di legno pose al suo dipendente una semplice domanda: "Quando è stata l'ultima volta che hai affilato la tua ascia?". Un po' imbarazzato il taglialegna rispose: "Signore, non ho avuto tempo per affilare la mia ascia, ero troppo impegnato a tagliare gli alberi".
“Non ho avuto tempo!”... eppure il tempo c’è, e lì per noi, ma spesso non sappiamo nemmeno valutare la qualità del suo impiego.
365 giorni l’anno (e sei ore!) trascorrono tra innumerevoli cose da fare.
Fare, fare e sempre fare, in una società e una cultura che ci ha insegnato a correre e dove l’efficienza di ciascuno viene calcolata sulla quantità di cose che fa durante il tempo che ha disposizione.
Non c’è tempo per le persone care (troppi impegni), non c’è tempo per gli amici, non c’è tempo neppure per noi.
Figuriamoci se c’è tempo per Dio.
Ma quando tiriamo le somme e ci accorgiamo che non tutto gira per il verso giusto, che non tutto ci riesce come vorremmo, che i risultati della nostra esistenza sono scadenti... forse dovremmo porre a noi stessi la domanda del commerciante di legna: “quando è stata l’ultima volta che hai affilato la tua ascia?”.
Quando è stata l’ultima volta che ho dedicato del tempo agli strumenti che mi aiutano a vivere?
Quando è stata l’ultima volta che ho trascorso qualche minuto a riflettere sulla mia esistenza, sulla mia relazione con gli altri, sulla mia relazione con Dio?
Qui è in gioco la differenza tra vivere e lasciarsi vivere.
Avvento, tempo di attesa. Tempo di attese. Sono tante le attese che ognuno di noi porta nel proprio cuore. C’è chi spera in un domani miglio...