il blog del Don Bosco Ranchibile

mercoledì 22 settembre 2021

Racconto perché...

 

mountain pose

Quest'anno abbiamo iniziato il nostro percorso formativo, con il buongiorno del sig. Preside.

Ci ha parlato di una figura straordinaria, Don Pino Puglisi, un uomo senza limiti perché libero.

Ha dato fastidio perché parlava del bene e per il bene. Questo sognava per i ragazzi che avvicinava: un mondo bello, nuovo, dove il male piano piano indietreggi e lasci spazio al bene. 

Era, come ci ha detto il preside, un educatore.

Non è facile educare. Bisogna imparare a remare controcorrente, a subire qualche critica, se capita, a rimanere saldamente legato ai propri valori, anche quando la tendenza maggiore è la relativizzazione.

L’educatore ascolta e, quando è necessario, parla. 

In questo senso il nostro percorso formativo prevede un momento, al mattino, chiamato “il buongiorno”. 

Vi sarà data una parola, che può avere dei risvolti, oppure no. 

Ma non importa: il seminatore sa già che non tutti i semi che sparge potranno portare frutto. Non per questo si arrende.


C’era una volta un narratore. Viveva povero, ma senza preoccupazioni, felice di niente, con la testa sempre piena di sogni. Ma il mondo intorno gli pareva grigio, brutale, arido di cuore, malato d’anima. E ne soffriva.

Un mattino, mentre attraversava una piazza assolata, gli venne un’idea. «E se raccontassi loro delle storie? Potrei raccontare il sapore della bontà e dell’amore, li porterei sicuramente alla felicità». Salì su una panchina e cominciò a raccontare ad alta voce. Anziani, donne, bambini, si fermarono un attimo ad ascoltarlo, poi si voltarono e proseguirono per la loro strada.

Il narratore, ben sapendo che non si può cambiare il mondo in un giorno, non si scoraggiò. Il giorno dopo tornò nel medesimo luogo e di nuovo lanciò al vento le più commoventi parole del suo cuore. Nuovamente la gente si fermò, ma meno del giorno prima. Qualcuno rise di lui. Qualche altro lo trattò da pazzo. Ma lui continuò imperterrito a narrare. 

Ostinato, tornò ogni giorno sulla piazza per parlare alla gente, offrire i suoi racconti di amore e di meraviglie. Ma i curiosi si fecero rari e, ben presto, si ritrovò a parlare solo alle nubi e alle ombre frettolose dei passanti che lo sfioravano appena. Ma non rinunciò. Scoprì che non sapeva e non desiderava fare altro che raccontare le sue storie, anche se non interessavano a nessuno. 

Cominciò a narrarle ad occhi chiusi, per il solo piacere di sentirle, senza preoccuparsi di essere ascoltato. La gente lo lasciò solo dietro le palpebre chiuse. Passarono così degli anni.

Una sera d’inverno, mentre raccontava una storia prodigiosa nel crepuscolo indifferente, sentì che qualcuno lo tirava per la manica. Aprì gli occhi e vide un ragazzo. Il ragazzo gli fece una smorfia beffarda: «Non vedi che nessuno ti ascolta, non ti ha mai ascoltato né ti ascolterà mai? Perché diavolo vuoi perdere così il tuo tempo?».

«Amo i miei simili», rispose il narratore. «Per questo mi è venuta voglia di renderli felici».

Il ragazzo ghignò: «Povero pazzo, lo sono diventati?».«No», rispose il narratore, scuotendo la testa.

«Perché ti ostini, allora?», domandò il ragazzo, preso da una improvvisa compassione.

«Continuo a raccontare, e racconterò fino alla morte. Un tempo era per cambiare il mondo...». Tacque, poi il suo sguardo si illuminò.

E disse ancora: «Oggi racconto perché il mondo non cambi me».



Magari ci è già capitato. Magari ci capiterà, di incontrare dei “pazzi” felici che ci parlano di Dio. Don Pino Puglisi era uno di loro.

Dio ha cambiato la loro vita, rendendola meravigliosa, perché hanno capito cosa è l’essenziale. Il loro desiderio allora è quello di trasmettere questa felicità ai loro simili, nonostante tutto, ad ogni costo. Sì, anche a costo di rimanere soli... e se nessuno li ascolta continueranno a parlare perché, anche se non potranno cambiare il mondo, il mondo non cambi loro. 

«Dio è dentro il nostro cuore per dirci che dobbiamo essere bravi», scrive una bambina nel quaderno del catechismo.

La catechista le domanda: «E se una bambina non vuole ascoltarlo?».

La bambina sgrana gli occhi e risponde tranquilla: «Oh, Lui ripete».

Ostinatamente, nonostante tutto, Dio continua a raccontare la sua storia.

venerdì 4 maggio 2018

La legge del camion della spazzatura

David era di fretta, il suo treno sarebbe partito tra meno di mezz'ora e le previsioni del traffico non presagivano nulla di buono. Senza pensarci troppo saltò sul primo taxi libero, in direzione della stazione. Il taxi giallo sfrecciava sulla corsia preferenziale, quando all'improvviso una macchina scura sbucò da un parcheggio poco più avanti: il tassista premette con tutta la sua forza il pedale del freno e le ruote iniziarono a fischiare. Dopo alcuni secondi, che erano sembrati interminabili, il taxi finalmente si fermò, a pochi centimetri dalla macchina scura. 
David aveva il cuore in gola, ma le sorprese non era ancora finite. Il guidatore disattento, non solo non si scusò, ma iniziò ad inveire contro il tassista, per poi andarsene con un bel dito medio che sporgeva dal finestrino. David non poteva crederci: quel tizio stava per causare un'incidente potenzialmente mortale ed invece di scusarsi si era comportato da perfetto cafone. 
Ma a sorprenderlo davvero fu la reazione del tassista... 
Il tassista non solo non si scompose più di tanto: sorrise e salutò amichevolmente il guidatore disattento. David era incredulo: "Come hai potuto lasciarlo andare così? Stava per ucciderci!". Fu allora che David venne a conoscenza della "Legge del Camion della Spazzatura". Continuando a sorridere il tassista guardò David nello specchietto e disse: 
"Un sacco di persone sono come camion della spazzatura. Vanno in giro pieni di ‘rifiuti': frustrazioni, rabbia, malcontento. Più questi ‘rifiuti' si accumulano e più loro sentono l'urgenza di cercare un posto dove scaricarli. E se glielo permetti, te li scaricheranno addosso. Quindi amico, quando qualcuno cercherà di scaricare la sua rabbia e la sua frustrazione su di te, non prenderla sul personale. Sorridi, augura loro ogni bene e vai avanti. Credimi: sarai più felice." 

Niente male la filosofia di vita del tassista. Immerso tutti i giorni nel traffico cittadino doveva necessariamente elaborare delle personali tecniche di sopravvivenza.  
In caso contrario le occasioni per litigare con qualcuno si sarebbero sprecate e gli effetti collaterali sulla salute sarebbero stati presto micidiali. 
Ma lui decide di "vivere sereno". E ce la fa! 
Chissà se siamo in grado di fare altrettanto. Chissà quanto spesso invece permettiamo agli altri di rovinarci la giornata. Per alcuni diventa persino una condizione patologica: il pensiero degli altri, il giudizio degli altri, l'opinione degli altri, la loro critica, la loro negatività... arriva a condizionare l'intera esistenza! Drammatico! 
Cari ragazzi, non lasciatevi sommergere dalla spazzatura che altri vorrebbero buttarci addosso. La vita è bella, è meravigliosa, nonostante tutto e tutti, e spetta a noi viverla alla grande. 
Dipende soprattutto da noi. 
Ma c'è un'altro aspetto della questione: se fossimo noi a ritrovarci alla guida "del camion della spazzatura"? Su chi potremmo "scaricarla"?  
Beh, c'è stato, in passato,  qualcuno che ha pensato di potersi far carico del male di tutta l'umanità, di tutta la sua "spazzatura".  
E da quello che si racconta, da duemila anni a questa parte, sembra che coloro che hanno affidato a lui tutto il loro carico di negatività poi abbiano vissuto una vita straordinaria. 
Forte no? 
Dove possiamo incontrarlo?  
Non ad un incrocio.  Ma su una croce. 
Ma è un'altra storia e... ne riparleremo! 

Più forti di Goldrake!

4 aprile 1978. Un ragazzino, 11 anni appena compiuti, trascorre a casa l’intero pomeriggio.
Sembra annoiato. Non è come tutti i giorni. Di solito c’è l’oratorio, con la sua vitalità, la sua energia, a riempire il tempo post studio.
Ma oggi no.
La mamma sta male e deve prendersene cura. Non si sa mai... dovesse avere bisogno di qualcosa.

18.30. Che fare? I compiti li ha finiti, persino il disegno di religione che la maestra, come al solito non guarderà. Anche l’ultimo numero di Topolino è fuori gioco, finito.
Non rimane che accendere la tivù.
Ma nel 78 la tivù è diversa. Solo programmi per grandi, spesso noiosi, per lui che ancora non è in grado di cogliere il valore culturale” delle cose.
Una presentatrice annuncia che sta per andare in onda il primo episodio di un nuovo cartone animato, qualcosa di mai visto alla televisione italiana.
Il ragazzino non comprende in pieno il senso della spiegazione. Ma un cartone è comunque una buona occasione per rilassarsi e passare il tempo con leggerezza. Fino ad ora...

18.45. Tutto cambia. Già dalla sigla...

Ufo Robot, Ufo Robot
Ufo Robot, Ufo Robot
Si trasforma in un razzo missile
con circuiti di mille valvole
tra le stelle sprinta e va.

Mangia libri di cibernetica
insalate di matematica
e a giocar su Marte va.

Lui respira dell'aria cosmica
è un miracolo di elettronica
ma un cuore umano ha.

Ma chi è?
Ma chi è?
Ufo Robot, Ufo Robot

Da questo momento non è più la stessa cosa.
Il primo anime giapponese, il primo supereroe intergalattico entra nella vita del ragazzino e cambia il suo modo di guardare la realtà.

Il nuovo supereroe è un essere coraggioso, sopraggiunto sulla terra da un altro pianeta distrutto da esseri malvagi, dedica la sua esistenza a difendere la Terra dai cattivi, fino al limite del sacrificio della sua stessa vita.
È schivo, forte, coraggioso...

Goldrake diventa il modello di ogni ragazzino. Ma anche di qualche adulto disilluso da una realtà dove la sete di giustizia diventa sempre più intensa.

Il gioco di suoni, immagini, movimenti al rallenty e comandi vocali dall’eco profonda, (che adrenalina mette su il sentire gridare, come da una voce lontana, alabarda spaziale, lame rotanti, doppio maglio perforante...), fa sognare tutti e risveglia sensazioni che da lì a poco saranno parte della vita di molti, moltissimi.

Un’icona pop, è stata definita. Capace di avvicinare mondi diversi: adulti e bambini, ceti sociali differenti, interessi culturali distanti si ritrovano (ancora oggi a quarant’anni di distanza) a parlare di Goldrake, Ufo Robot.

Ma non tutto fila liscio. Molti genitori sono allarmati: questa nuova tipologia di cartoni non va. Troppa violenza esplicita, aggressività, sofferenza... i bambini non sono abituati. Cominciano ad emulare Goldrake e inoltre leggono sempre meno... (non si inventa mai nulla!).
Ufo Robot finisce in parlamento. Bisogna decidere se cancellarne la programmazione o lasciarlo sopravvivere.
A difendere il robottone, in maniera del tutto inaspettata, arriva Gianni Rodari, giornalista e scrittore di fiabe per bambini.
Goldrake, secondo lo scrittore, non è altro che il risveglio di un mito. Nulla di immorale in lui, come nulla di immolare si può riscontrare in Ercole. Quest’ultimo era per metà uomo e per metà dio. Goldrake è per metà uomo e per metà nave spaziale. Ma la sostanza non cambia e nascondere ai bambini il rapporto con la sofferenza, (siamo in periodi in cui parlare di morte è tabù), con le emozioni più forti, con il senso della giustizia, (in altre parole nascondere il contatto con la vita reale), non può essere considerato negativo.

Così Ufo Robot è sopravvissuto agli attacchi mediatici. Ed il ragazzino è cresciuto. È qui a scrivere qualche pensiero da regalarvi...

Mi sono interrogato su quel metà dio”.
Mi è venuto in mente che qualcun altro ci aveva promesso che non saremmo stati metà dio”, ma figli di Dio. Cioè divini, come lui.
Beh, se già è difficile essere Goldrake, o Ercole, figuriamoci di più...

E sentiamo un po’, mi sono detto, come che potremmo diventare divini”, come Dio, uguali a lui o addirittura suoi figli?
Tra le beatitudini evangeliche riportate da Matteo (Mt. 5,3-12) - quanto ne abbiamo parlato al biennio!!! - ce n’è una che dice Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

Semplice, no? Già! Mica tanto. Perché è evidente che gli operatori di pace non sono quelli che organizzano manifestazioni pacifiste, magari spaccando vetrine o assaltando le barriere della polizia...
No. Gesù ha un’altra idea di pacifismo.
La pace deve nascere prima dentro di noi. Poi riusciremo a portarla attorno a noi. Non combattendo la violenza con altra violenza, ma con la mansuetudine, la mitezza, l’amore.

Le parole di Gesù sono di una concretezza disarmante e non lasciano spazio ai dubbi.

Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. (Lc. 6, 27-35)

È qui il senso della promessa di Gesù. Per essere come Dio, per essere figli di Dio, bisogna vincere i limiti della natura umana e amare non in modo comune. In modo divino: Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Ce ne vuole.
Gesù sarebbe stato poco credibile se alle sue parole non avesse fatto seguire i fatti.
Ma in questi ultimi giorni, (i giorni della settimana santa), questi fatti sono stati ricordati continuamente. E lo abbiamo visto lì, appeso nudo a un pezzo di legno, deriso dagli stessi accusatori che lo avevano condannato perché fastidioso al loro quieto vivere, al loro perbenismo, alla loro adesione formale alla fede e, quando ormai le forze erano esaurite, usare l’ultimo fiato disponibile per dire Padre, perdonali...”. Perdonali.

Essere divini è possibile. Essere più forti di Goldrake è possibile.
Ma richiede un amore sovrumano. Divino appunto.

venerdì 13 aprile 2018

La pianta segreta

Un uomo duramente provato dalla vita, il quale aveva saputo mantenere sempre integra la sua serenità e il suo coraggio, sentendo avvicinarsi la fine chiamò intorno a sé i figlioli, le nuore, i nipoti e i pronipoti e disse loro:
"Voglio svelarvi un segreto. Venite con me nel frutteto".
Tutti lo seguirono con curiosità e tenerezza, poiché sapevano quanto il vecchio amasse le piante. Con le poche forze rimaste e rifiutando ogni aiuto, l'uomo cominciò a zappare in un punto preciso, al centro del verziere. Apparve un piccolo scrigno. Il vecchio lo aprì e disse: "Ecco la pianta più preziosa di tutte, quella che ha dato cibo alla mia vita e di cui tutti voi avete beneficiato".
Ma lo scrigno era vuoto e la pianticella che l'uomo teneva religiosamente fra le dita era una sua fantasia. Ciononostante nessuno sorrise.
"Prima di morire", proseguì l'uomo, "voglio dare ad ognuno di voi uno dei suoi inestimabili semi".
Le mani di tutti si aprirono e finsero di accogliere il dono.
"È una pianta che va coltivata con cura, altrimenti s'intristisce e chi la possiede ne è come intossicato e perde vigore. Affinché le sue radici divengano profonde, bisogna sorriderle; solo col sorriso le sue foglie diventano larghe e fanno ombra a molti. Infine, i suoi rami vanno tenuti sollevati da terra; solo con l'aiuto di molto cielo diventano agili e lievi a tal punto da non farsi nemmeno notare".
Il vecchio tacque. Passò molto tempo. Nessuno si mosse. Il sole stava per tramontare, quando il figlio maggiore disse per tutti:
"Grazie, padre, del tuo bellissimo dono; ma forse non abbiamo capito bene di che pianta si tratti".
"Sì che lo avete capito. Mentre mi ascoltavate e mi stavate intorno, ognuno di voi ha già dato vita al piccolo seme che vi ho consegnato. È la Pianta della Pazienza". 

Il termine pazienza può avere in italiano diversi significati, ma che rispecchiano tutti l'origine etimologica dal latino patientia e dal greco pathos.
Leggiamo alcuni tra i significati principali dal vocabolario Treccani:
  1. Disposizione d’animo, abituale o attuale, congenita al proprio carattere o effetto di volontà e di autocontrollo, ad accettare e sopportare con tranquillità, moderazione, rassegnazione, senza reagire violentemente, il dolore, il male, i disagi, le molestie altrui, le contrarietà della vita in genere;
  2. Capacità di frenarsi, di contenere l’ira, l’irritazione;
  3. Calma, assiduità, costanza e insieme precisione nell’eseguire un lavoro, nello svolgere un’attività superandone le piccole difficoltà.
Chiusa questa parentesi culturale, ci chiediamo: e a che serve? Che utilità si ricava dall’essere pazienti? Perché spesso ragioniamo proprio in questi termini, quelli dell’utilità. Un po’ meno pensiamo in termini di essere, di costruzione di un’identità personale unica, ma anche sana.
Ci sono evidenti utilità che si ricavano dall’essere pazienti, e si possono facilmente evincere anche limitandosi a prendere in considerazione le tre definizioni citate:
chi è paziente è tranquillo, sta bene con se stesso e con gli altri e sa che a nulla serve lamentarsi dei disagi o delle contrarietà della vita: il lamento genera un malessere maggiore, non lenisce il dolore;
chi è paziente non cede all’ira, sa che è distruttiva e autodistruttiva: presi dall’ira possiamo fare del male agli altri ma anche noi stessi ne ricaviamo un danno sia fisico (il palermitano “un fari a bile” descrive benissimo quest’aspetto) sia interiore (perdiamo la pace);
chi è paziente nelle sue attività riesce a poco a poco, con cura e precisione, a raggiungere risultati straordinari.
Ma c’è ancora un aspetto della pazienza che definirei (e penso di non sbagliarmi) superiore: la pazienza è una di quelle caratteristiche che ci fa più simili a Dio. Perché Dio è “paziente e misericordioso”, ci dicono le scritture, “lento all’ira e grande nell’amore”. Perché Dio è amore.
E chi ama è paziente. Come Dio.
Ricordo una delle prime omelie di Papa Francesco, una domenica all’Angelus.
Raccontava del suo incontro con una vecchietta alla quale, ancora vescovo a Buenos Aires, aveva chiesto: “Nonna, lei è sicura che Dio ci perdona?”. “Certo”, disse l’anziana donna, “Dio perdona tutto!”. “E lei come lo sa?”, “Se Dio non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe!”.
Straordinaria testimonianza di una fede semplice e forte!
Il mondo esiste ancora perché Dio è paziente.
Da quello a cui assistiamo sempre più frequentemente nella storia di tutti i giorni forse dovremmo chiederci se il mondo non rischia la distruzione perché gli uomini non sono altrettanto pazienti.
Ma, ancora una volta, non possiamo puntare il dito addosso agli altri. Dobbiamo guardare a noi stessi e cominciare a costruire un mondo diverso a partire dalla nostra coscienza: io, sono paziente?

venerdì 28 luglio 2017

Il diamante

(Dal buongiorno al biennio del 27 ottobre 2016)

C’era una volta un monaco che viveva poveramente e passava di villaggio in villaggio parlando di Dio e della sua bontà. Si accontentava di poco e spesso la sua cena consisteva in un pezzo di pane e un po’ d’acqua bevuta alla fontana.
Una sera il monaco arrivò in prossimità di un villaggio e, per non disturbare nessuno a quell’ora, si sistemò un giaciglio sotto un albero.
Stava recitando le preghiere della sera quando gli si fece incontro, sudato ed ansimante, un abitante del villaggio che gridava: “La pietra! La pietra! Dammi la pietra preziosa!”
“Che pietra?”, chiese il monaco.
“La notte scorsa mi è apparso in sogno il Signore”, disse l’abitante del villaggio, “e mi ha detto che se fossi venuto alla periferia del villaggio al crepuscolo avrei trovato un monaco che mi avrebbe dato una pietra preziosa e mi avrebbe reso ricco per sempre”.
Tranquillo e sereno, il monaco rovistò nel suo sacco e tirò fuori una grossa pietra scintillante.
“Probabilmente il Signore intendeva questa” disse porgendo la pietra all’uomo. “L’ho trovata sul sentiero della montagne qualche giorno fa. Tienila pure”.
L’uomo fissò meravigliato la pietra. Era un diamante. Certamente il diamante più grosso del mondo perché aveva le dimensioni di una testa di uomo.
Con gli occhi luccicanti l’abitante del villaggio afferrò il diamante e corse via. Posò la pietra su un tavolino vicino al letto e si coricò. Mille pensieri gli tormentavano la mente. Si girò e rigirò nel letto senza poter dormire.
Il giorno dopo allo spuntar dell’alba, l’uomo tornò dal monaco, lo sveglio e gli disse: “Dammi la ricchezza che ti permette di dar via così facilmente questo diamante”.

Cosa ci insegna questa storia? Forse non sempre quello che noi consideriamo ricchezza è la ricchezza più grande che possiamo desiderare. Forse il bene più grande non è quello più appariscente ma quello più nascosto. Un bene tale da renderci veramente felici e che non ci crea inquietudine o angoscia.
I beni possono essere di due tipi: quelli materiali e quelli interiori (o spirituali).
Dove sta la differenza tra queste due categorie? I primi, se decidiamo di donarli agli altri, li perdiamo. Siamo costretti a farne a meno e, forse per questo, siamo spinti a non privarcene affatto, accrescendo così il nostro egoismo.
I beni spirituali , invece, sono strani, perché più li doniamo e più li vediamo crescere.
Chi dona ciò che conosce non per questo diventerà ignorante. Chi dona gioia sarà ancora più felice, non sarà certo triste.  Chi ama non rimarrà senza amore, anzi il suo cuore scoppierà di amore.
Ci sono beni che possiamo donare e che ci permetteranno di essere realmente ricchi.

Cerchiamo quella ricchezza che ci permette di donare facilmente.

mercoledì 26 luglio 2017

Ambra


M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare
In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".
Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".
Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.
Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.
Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.
Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.
Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.
Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.
Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».

mercoledì 28 giugno 2017

Il clown 🤡


(Dal buongiorno ai ragazzi del biennio del 20 ottobre 2016)

Nello studio di un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben equilibrato, serio ed elegante. Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell’uomo era intimamente abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua ed assillante. Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e, al termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente: «Perché questa sera non va al circo che è appena arrivato nella nostra città? Nello spettacolo si esibisce un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo: tutti parlano di lui, perché è unico. Le farà bene, vedrà».
Allora quell’uomo scoppiò in lacrime, dicendo: «Quel clown, sono io».

E’ una storia vera. Tanto semplice quanto profonda. E’ vera non solo per i due protagonisti, ma per ciascuno di noi. Perché tutti noi, ogni mattino, siamo costretti ad indossare una maschera per renderci presentabili al mondo. Indossiamo la maschera che ci attribuisce un ruolo, quello che ci permette di essere accolti, accettati dagli altri. Non è un male desiderare di essere accettati dagli altri: non saremmo esseri umani. Ma il problema diventa evidente nel momento in cui in nome di questo “essere accolti” vendiamo, o svendiamo la nostra dignità. 
Vi siete chiesti perché spesso abbiamo paura della solitudine? Credo che il motivo sia essenzialmente questo: quando siamo soli ci troviamo di fronte a noi stessi, con i nostri dubbi e i nostri interrogativi e corriamo un grande rischio, quello di conoscerci realmente, di scoprire chi siamo. Sì, il rischio di accorgerci di avere usato continuamente delle maschere che hanno ingannato gli altri ma anche noi! E così è più comodo non stare soli e non correre questo rischio.
Non è dai libri che ho ricavato queste considerazioni che sanno di “psicologico”. Io ho visto. Proprio qui, in questa nostra scuola. 
Ho visto alcuni tra voi spavaldi, coraggiosi come dei lupi, quando sono in branco. Ma, da soli, li ho visti girare sospettosi e impauriti anche dalla propria ombra. 
Ho visto altri che fanno di tutto per trasformare la propria classe in un continuo carnevale. Poi li ho trovati a girovagare soli, fra le colonne del cortile, con le facce rabbuiate, tristi, tanto “ a che serve la vita senza l’applauso, il riso, l’approvazione degli altri?”. 
Ho visto alcuni tra voi con l’abito del duro, dello spaccone, del coraggioso. Li ho visti piangere e singhiozzare come i bambini davanti una responsabilità, una piccola difficoltà che anche la scuola può presentare. Che ne sarà di loro quando la vita presenterà dei conti ben più salati? 
Bisogna avere un po’ di coraggio. La paura più grande non è quella che proviamo nei confronti degli altri ma quella di noi stessi. Già bisogna avere un po’ di coraggio e rischiare di conoscerci. E poi accettarci, così come siamo, con i nostri limiti, pregi e difetti. E non credete alla facile illusione di un mondo adulto che (anche qui tra voi) vi presenta scene di vita riuscita, meravigliosa e senza difficoltà... spesso è solo apparenza, spesso non è la propria vita.
Ricordate lo straordinario insegnamento del Piccolo principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. 
Ma questa è un’altra storia.


Il calendario dell'avvento

Avvento, tempo di attesa. Tempo di attese. Sono tante le attese che ognuno di noi porta nel proprio cuore. C’è chi spera in un domani miglio...