il blog del Don Bosco Ranchibile

venerdì 28 luglio 2017

Il diamante

(Dal buongiorno al biennio del 27 ottobre 2016)

C’era una volta un monaco che viveva poveramente e passava di villaggio in villaggio parlando di Dio e della sua bontà. Si accontentava di poco e spesso la sua cena consisteva in un pezzo di pane e un po’ d’acqua bevuta alla fontana.
Una sera il monaco arrivò in prossimità di un villaggio e, per non disturbare nessuno a quell’ora, si sistemò un giaciglio sotto un albero.
Stava recitando le preghiere della sera quando gli si fece incontro, sudato ed ansimante, un abitante del villaggio che gridava: “La pietra! La pietra! Dammi la pietra preziosa!”
“Che pietra?”, chiese il monaco.
“La notte scorsa mi è apparso in sogno il Signore”, disse l’abitante del villaggio, “e mi ha detto che se fossi venuto alla periferia del villaggio al crepuscolo avrei trovato un monaco che mi avrebbe dato una pietra preziosa e mi avrebbe reso ricco per sempre”.
Tranquillo e sereno, il monaco rovistò nel suo sacco e tirò fuori una grossa pietra scintillante.
“Probabilmente il Signore intendeva questa” disse porgendo la pietra all’uomo. “L’ho trovata sul sentiero della montagne qualche giorno fa. Tienila pure”.
L’uomo fissò meravigliato la pietra. Era un diamante. Certamente il diamante più grosso del mondo perché aveva le dimensioni di una testa di uomo.
Con gli occhi luccicanti l’abitante del villaggio afferrò il diamante e corse via. Posò la pietra su un tavolino vicino al letto e si coricò. Mille pensieri gli tormentavano la mente. Si girò e rigirò nel letto senza poter dormire.
Il giorno dopo allo spuntar dell’alba, l’uomo tornò dal monaco, lo sveglio e gli disse: “Dammi la ricchezza che ti permette di dar via così facilmente questo diamante”.

Cosa ci insegna questa storia? Forse non sempre quello che noi consideriamo ricchezza è la ricchezza più grande che possiamo desiderare. Forse il bene più grande non è quello più appariscente ma quello più nascosto. Un bene tale da renderci veramente felici e che non ci crea inquietudine o angoscia.
I beni possono essere di due tipi: quelli materiali e quelli interiori (o spirituali).
Dove sta la differenza tra queste due categorie? I primi, se decidiamo di donarli agli altri, li perdiamo. Siamo costretti a farne a meno e, forse per questo, siamo spinti a non privarcene affatto, accrescendo così il nostro egoismo.
I beni spirituali , invece, sono strani, perché più li doniamo e più li vediamo crescere.
Chi dona ciò che conosce non per questo diventerà ignorante. Chi dona gioia sarà ancora più felice, non sarà certo triste.  Chi ama non rimarrà senza amore, anzi il suo cuore scoppierà di amore.
Ci sono beni che possiamo donare e che ci permetteranno di essere realmente ricchi.

Cerchiamo quella ricchezza che ci permette di donare facilmente.

mercoledì 26 luglio 2017

Ambra


M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare
In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".
Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".
Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.
Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.
Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.
Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.
Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.
Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.
Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».

mercoledì 28 giugno 2017

Il clown 🤡


(Dal buongiorno ai ragazzi del biennio del 20 ottobre 2016)

Nello studio di un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben equilibrato, serio ed elegante. Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell’uomo era intimamente abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua ed assillante. Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e, al termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente: «Perché questa sera non va al circo che è appena arrivato nella nostra città? Nello spettacolo si esibisce un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo: tutti parlano di lui, perché è unico. Le farà bene, vedrà».
Allora quell’uomo scoppiò in lacrime, dicendo: «Quel clown, sono io».

E’ una storia vera. Tanto semplice quanto profonda. E’ vera non solo per i due protagonisti, ma per ciascuno di noi. Perché tutti noi, ogni mattino, siamo costretti ad indossare una maschera per renderci presentabili al mondo. Indossiamo la maschera che ci attribuisce un ruolo, quello che ci permette di essere accolti, accettati dagli altri. Non è un male desiderare di essere accettati dagli altri: non saremmo esseri umani. Ma il problema diventa evidente nel momento in cui in nome di questo “essere accolti” vendiamo, o svendiamo la nostra dignità. 
Vi siete chiesti perché spesso abbiamo paura della solitudine? Credo che il motivo sia essenzialmente questo: quando siamo soli ci troviamo di fronte a noi stessi, con i nostri dubbi e i nostri interrogativi e corriamo un grande rischio, quello di conoscerci realmente, di scoprire chi siamo. Sì, il rischio di accorgerci di avere usato continuamente delle maschere che hanno ingannato gli altri ma anche noi! E così è più comodo non stare soli e non correre questo rischio.
Non è dai libri che ho ricavato queste considerazioni che sanno di “psicologico”. Io ho visto. Proprio qui, in questa nostra scuola. 
Ho visto alcuni tra voi spavaldi, coraggiosi come dei lupi, quando sono in branco. Ma, da soli, li ho visti girare sospettosi e impauriti anche dalla propria ombra. 
Ho visto altri che fanno di tutto per trasformare la propria classe in un continuo carnevale. Poi li ho trovati a girovagare soli, fra le colonne del cortile, con le facce rabbuiate, tristi, tanto “ a che serve la vita senza l’applauso, il riso, l’approvazione degli altri?”. 
Ho visto alcuni tra voi con l’abito del duro, dello spaccone, del coraggioso. Li ho visti piangere e singhiozzare come i bambini davanti una responsabilità, una piccola difficoltà che anche la scuola può presentare. Che ne sarà di loro quando la vita presenterà dei conti ben più salati? 
Bisogna avere un po’ di coraggio. La paura più grande non è quella che proviamo nei confronti degli altri ma quella di noi stessi. Già bisogna avere un po’ di coraggio e rischiare di conoscerci. E poi accettarci, così come siamo, con i nostri limiti, pregi e difetti. E non credete alla facile illusione di un mondo adulto che (anche qui tra voi) vi presenta scene di vita riuscita, meravigliosa e senza difficoltà... spesso è solo apparenza, spesso non è la propria vita.
Ricordate lo straordinario insegnamento del Piccolo principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. 
Ma questa è un’altra storia.


sabato 24 giugno 2017

La pietra azzurra

(Dal buongiorno ai ragazzi del biennio del 13 ottobre 2016)

Il gioielliere era seduto alla scrivania e guardava distrattamente la strada attraverso la
vetrina del suo elegante negozio. Una bambina si avvicinò al negozio e schiacciò il naso
contro la vetrina. I suoi occhi colore del cielo si illuminarono quando videro uno degli
oggetti esposti.
Entrò decisa e puntò il dito verso uno splendido collier di turchesi azzurri.
«E’ per mia sorella. Può farmi un bel pacchetto regalo?».
Il padrone del negozio fissò incredulo la piccola cliente e le chiese: «Quanti soldi hai?».
Senza esitare, la bambina, alzandosi in punta di piedi, mise sul banco una scatola di latta,
la aprì e la svuotò. Ne vennero fuori qualche biglietto di piccolo taglio, una manciata di
monete, alcune conchiglie, qualche figurina. «Bastano?» disse con orgoglio. «Voglio fare
un regalo a mia sorella più grande. Da quando non c’è più la nostra mamma, è lei che ci fa
da mamma e non ha mai un secondo di tempo per se stessa. Oggi è il suo compleanno e
sono sicura che con questo regalo la farò molto felice. Questa pietra ha lo stesso colore
dei suoi occhi».
L’uomo entra nel retro e ne riemerge con una splendida carta regalo rossa ed oro con cui
avvolge con cura l’astuccio.
«Prendilo», disse alla bambina. «Portalo con attenzione». La bambina partì orgogliosa
tenendo il pacchetto in mano come un trofeo.
Un’ora dopo entrò nella gioielleria una bella ragazza con la chioma color miele e due
meravigliosi occhi azzurri. Posò con decisione sul banco il pacchetto che con tanta cura il
gioielliere aveva confezionato e chiese: «Questa collana è stata comprata qui?». «Sì,
signorina».
«E quanto è costata?». «I prezzi praticati nel mio negozio sono confidenziali, riguardano
solo il mio cliente e me».
«Ma mia sorella aveva solo pochi spiccioli. Non avrebbe mai potuto pagare un collier
come questo!».
Il gioielliere prese l’astuccio, lo chiuse con il suo prezioso contenuto, rifece con cura il
pacchetto regalo e lo consegnò alla ragazza. «Sua sorella ha pagato. Ha pagato il prezzo
più alto che chiunque possa pagare: ha dato tutto quello che aveva».


“Tutto quello che aveva”.
Se si ama si è disposti a donare. Chiediamoci se c’è qualcuno a cui saremmo disposti a
dare tutto quello che abbiamo e comprenderemo quanto amore proviamo per questa
persona.
Chi tra noi non sarebbe disposto a dare tutto quello che ha per far tornare una persona
cara che non c’è più? Niente vale quanto una persona che amiamo davvero.
Diverso è il discorso quando si tratta di qualcuno che incontriamo per caso, che non
conosciamo, che in qualche modo con la sua presenza... ci disturba.
Già! Al di là di certe espressioni sentimentali, il nostro cuore è spesso così piccolo…
Ci viene così naturale spendere dieci euro per partecipare ad una festa, per comprarci
qualcosa che ci piace, per soddisfare piccoli capricci. Ma non sempre è altrettanto facile
essere generosi con chi non è fortunato come noi.
Ma non è mai troppo tardi per guardarci attorno, per accorgerci degli altri, per cambiare, per amare.
Non è mai troppo tardi.

martedì 13 giugno 2017

Il buongiorno... si sente al mattino!

(dal buongiorno ai ragazzi dl biennio del 22 settembre 2016)


È con piacere vivo che, anche quest’anno, ho accettato l’invito del catechista (don Vincenzo) di raccontarvi qualcosa. Più o meno... una volta alla settimana.
Bella questa tradizione del “buongiorno”! Questo piccolo ritaglio di tempo che possiamo dedicare ad una riflessione, una storia, uno spunto che tracci una piccola linea e che ognuno di noi può spontaneamente utilizzare come “guida” per dare un senso alla giornata.
Perché di questo si tratta: fare in modo che le giornate non siano anonime, né tantomeno vuote o addirittura inutili.
Perché i giorni possono avere un sapore più o meno buono. Le cose accadono ma sono le persone che hanno il potere di dare loro un sapore. Come il sale...

C’era una volta un re che rispondeva al nobile nome di Enrico il Saggio. Aveva tre figlie che si chiamavano Alba, Bettina e Carlotta. In segreto, il re preferiva Carlotta. Tuttavia, dovendo designare una sola di esse per la successione al trono, le fece chiamare tutte e tre e domandò loro: “Mie care figlie, come mi amate?”.
La più grande rispose: “Padre, io ti amo come la luce del giorno, come il sole che dona la vita alle piante. Sei tu la mia luce!”.
Soddisfatto, il re fece sedere Alba alla sua destra, poi chiamò la seconda figlia.
Bettina dichiarò: “Padre, io ti amo come il più grande tesoro del mondo, la tua saggezza vale più dell’oro e delle pietre preziose. Sei tu la mia ricchezza!”.
Lusingato e cullato da questo filiale elogio, il re fece sedere Bettina alla sua sinistra.
Poi chiamò Carlotta. “E tu, piccola mia, come mi ami?”, chiese teneramente.
La ragazza lo guardò fisso negli occhi e rispose senza esitare: “Padre, io ti amo come il sale da cucina!”.
Il re rimase interdetto: “Che cosa hai detto?”.
“Padre, io ti amo come il sale da cucina”.
La collera del re tuonò terribile: “Insolente! Come osi, tu, luce dei miei occhi, trattarmi così? Vattene! Sei esiliata e diseredata!”.
La povera Carlotta, piangendo tutte le sue lacrime, lasciò il castello e il regno di suo padre. Trovò un posto nelle cucine del re vicino e, siccome era bella, buona e brava, divenne in breve la capocuoca del re.
Un giorno arrivò al palazzo il re Enrico. Tutti dicevano che era triste e solo. Aveva avuto tre figlie ma la prima era fuggita con un chitarrista californiano, la seconda era andata in Australia ad allevare canguri e la più piccola l’aveva cacciata via lui…
Carlotta riconobbe subito suo padre. Si mise ai fornelli e preparò i suoi piatti migliori. Ma invece del sale usò in tutti lo zucchero.
Il pranzo divenne il festival delle smorfie: tutti assaggiavano e sputavano poco educatamente nel tovagliolo. Il re, rosso di collera, fece chiamare la cuoca.
La dolce Carlotta arrivò e soavemente disse: “Tempo fa, mio padre mi cacciò perché avevo detto che lo amavo come il sale di cucina che dà gusto a tutti i cibi. Così, per non dargli un altro dispiacere, ho sostituito il sale importuno con lo zucchero”.
Il re Enrico si alzò con le lacrime agli occhi: “E il sale della saggezza che parla per bocca tua, figlia mia. Perdonami e accetta la mia corona”.
Si fece una gran festa e tutti versarono lacrime di gioia: erano tutte salate, assicurano le cronache del tempo.

Molti anni fa qualcuno aveva detto: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore con che cosa lo si potrà rendere salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato...” (Mt. 5,13ss).

Ecco. Tutto qui. 

Il buongiorno si sente al mattino.
Questo piccolo spazio quotidiano ha un potere magico. Non perché sia io a parlare, o qualcun altro. No! Ma perché, quando meno uno se lo aspetta, arriva il giorno in cui una frase, un pensiero, un’idea... entra con forza sorprendente nella vita di qualcuno di noi e la trasforma. Dà un sapore diverso. Come il sale.
Nella nostra epoca degli aforismi, permettetemi di regalarvi tre citazioni tra le tantissime che sottolineano l’importanza del mattino. Poi scegliete quella che più vi piace.

  1. Quando fai qualcosa di nobile e bello e nessuno lo nota, non essere triste. Il sole ogni mattina è uno spettacolo bellissimo e tuttavia la maggior parte del pubblico dorme ancora. (John Lennon)
  2. Quando ci si deve alzare alle 7 in punto, e non hai fatto il tema che ti era stato assegnato, le 6:59 sono il momento peggiore della giornata! (Charlie Brown)
  3. Ogni mattina noi nasciamo nuovamente. Ciò che decidiamo di fare oggi è ciò che conta davvero. (Buddha)



lunedì 12 giugno 2017

Operazione nostalgia. Il ritorno del blogger 😊

Tante attività richiedono altrettanto impegno. E tempo. Tanto tempo.
Così, gli impegni scolastici ed extra, la collaborazione alle nuove pagine social della nostra scuola (che vi invito calorosamente a visitare) e alcuni impegni di carattere personale mi hanno tenuto distante da questo blog.
Ma non ho mai rinunciato ed ora, confidando in qualche piccola disponibilità di tempo, vorrei riprendere "le righe" troppo a lungo abbandonate.
La nostalgia era davvero tanta.
I percorsi non si sono comunque fermati e adesso potremo usufruire dei diversi "buongiorno" proposti ai nostri alunni del biennio, durante questo anno scolastico appena concluso, per ritagliarci un piccolo angolo di riflessione, per il benessere dello spirito.
Per chi vorrà...

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giovedì 26 maggio 2016

Il narratore

Eccoci alla fine dell’anno.
E’ passato in fretta e, nel bene e nel male, ha lasciato delle tracce dentro di noi. Attorno a noi.
Sono qui per salutarvi, ancora una volta.
E’ l’occasione giusta per dirvi grazie. Grazie per la pazienza con cui, nella sonnolenza del mattino, avete prestato attenzione ed ascolto. Grazie soprattutto a coloro che con lo sguardo, con l’espressione del volto, qualche volta anche con le parole esplicite, hanno espresso interesse, comunione di idee, condivisione di vita.

Alcuni anni fa, concludendo un percorso di studi universitari, mi sono imbattuto in una tematica proposta dal MIT di Boston. La questione proposta era: in una società ipertecnologica ha ancora senso raccontare delle storie?
Attraverso una serie di letture filosofiche e la raccolta di dati ricavati dall’esperienza ero arrivato alla conclusione che “raccontare storie” (lo storytelling, come si dice nel mondo anglosassone) è connaturale all’uomo.
Possono cambiare modalità e strumenti, ma l’uomo ha sempre avuto ed avrà sempre bisogno di ascoltare dei racconti e raccontare la sua storia. L’uso che facciamo dei social media inerisce a questo bisogno.

Ma capita anche di chiedersi “perché”? A che scopo raccontare delle storie? Che ne ricavano gli altri? Che ne ricaviamo noi?
E... mi viene in mente una storia!

C'era una volta un narratore. Viveva povero, ma senza preoccupazioni, felice di niente, con la testa sempre piena di sogni. Ma il mondo intorno gli pareva grigio, brutale, arido di cuore, malato d'anima. E ne soffriva.
Un mattino, mentre attraversava una piazza assolata, gli venne un'idea. "E se raccontassi loro delle storie? Potrei raccontare il sapore della bontà e dell'amore, li porterei sicuramente alla felicità". Salì su una panchina e cominciò a raccontare ad alta voce. Anziani, donne, bambini, si fermarono un attimo ad ascoltarlo, poi si voltarono e proseguirono per la loro strada.
Il narratore, ben sapendo che non si può cambiare il mondo in un giorno, non si scoraggiò. Il giorno dopo tornò nel medesimo luogo e di nuovo lanciò al vento le più commoventi parole del suo cuore. Nuovamente della gente si fermò, ma meno del giorno prima. Qualcuno rise di lui. Qualche altro lo trattò da pazzo. Ma lui continuò imperterrito a narrare.
Ostinato, tornò ogni giorno sulla piazza per parlare alla gente, offrire i suoi racconti d'amore e di meraviglie. Ma i curiosi si fecero rari, e ben presto si ritrovò a parlare solo alle nubi e alle ombre frettolose dei passanti che lo sfioravano appena. Ma non rinunciò.
Scoprì che non sapeva e non desiderava far altro che raccontare le sue storie, anche se non interessavano a nessuno. Cominciò a narrarle ad occhi chiusi, per il solo piacere di sentirle, senza preoccuparsi di essere ascoltato. La gente lo lasciò solo dietro le palpebre chiuse.
Passarono cosi degli anni. Una sera d'inverno, mentre raccontava una storia prodigiosa nel crepuscolo indifferente, sentì che qualcuno lo tirava per la manica. Apri gli occhi e vide un ragazzo. Il ragazzo gli fece una smorfia beffarda:
"Non vedi che nessuno ti ascolta, non ti ha mai ascoltato e non ti ascolterà mai? Perché diavolo vuoi perdere così il tuo tempo?".
"Amo i miei simili" rispose il narratore. "Per questo mi è venuto voglia di renderli felici". Il ragazzo ghignò: "Povero pazzo, lo sono diventati?"."No" rispose il narratore, scuotendo la testa.
"Perché ti ostini allora?" domandò il ragazzo preso da una improvvisa compassione.
"Continuo a raccontare. E racconterò fino alla morte. Un tempo era per cambiare il mondo". Tacque, poi il suo sguardo si illuminò.
E disse ancora: "Oggi racconto perché il mondo non cambi me".

Continuate a raccontarvi delle storie, ragazzi, altrimenti il mondo vi cambierà.
Che siano vere o inventate poco importa, ma raccontatevi tante storie.
La vostra e quella di altri.
Non perdete mai l’occasione di viaggiare. Leggete. Leggete tanto e sperimentate quella che Umberto Eco chiamava “l’eternità all’indietro”, sperimentate quella straordinaria sensazione di attraversare i secoli e di sentirvi crescere acquisendo conoscenza, sapienza, saggezza.
Se sembra impossibile migliorare il mondo, almeno non permettiamo a questo mondo di peggiorare noi. Il resto sarà una conseguenza.
Buona estate, allora.
Che ad ognuno di voi sia concesso di vivere (e di raccontare) una storia meravigliosa.

mercoledì 18 maggio 2016

L'anello magico

L'anello magico

Un re convocò a corte tutti i maghi del regno e disse loro: «Vorrei sempre essere d'esempio ai miei sudditi. Apparire forte e saldo, quieto e impassibile nelle vicende della vita. A volte mi succede d'essere triste o depresso, per una vicenda infausta o una sfortuna palese. Altre volte una gioia improvvisa o un grande successo mi mettono in uno stato di anormale eccitazione. Tutto questo non mi piace. Mi fa sentire come un fuscello sballottato dalle onde della sorte. Fatemi un amuleto che mi metta al riparo da questi stati d'animo e sbalzi d'umore, sia quelli tristi che quelli lieti».
Uno dopo l'altro, i maghi rifiutarono. Sapevano fare amuleti di tutti i tipi per gli sprovveduti che si rivolgevano loro, ma non era facile abbindolare un re. Che voleva per di più un amuleto dall'effetto così difficile.
L'ira del re stava per esplodere, quando si fece avanti un vecchio saggio che disse: «Maestà, domani io ti porterò un anello, e ogni volta che lo guarderai, se sarai triste potrai essere lieto, se sarai eccitato potrai calmarti. Basterà infatti che tu legga la frase magica che vi sarà incisa sopra».
L'indomani il vecchio saggio tornò, e nel silenzio generale, poiché tutti erano curiosi di sapere la magica frase, porse un anello al re. Il re lo guardò e lesse la frase incisa sul cerchio d'argento: «Anche questo passerà».

"Anche questo passerà"! Perché tutto passa, bello o brutto che sia. Che lo vogliamo o no.
La nostra percezione cambia. Il tempo sembra dilatarsi, nei momenti più tristi o più difficili e sembra invece contrarsi nei momenti piacevoli. Ma nessun momento dura in eterno.
Quale conseguenza produce questa consapevolezza?  L'atarassia, di alcune scuole filosofiche dell'ellenismo, la tranquillità che nulla potrà turbare? È questo il massimo che possiamo desiderare?
Non sempre la tranquillità è sinonimo di vita. Il nulla, il Nirvana direbbe il pensiero buddista, è l'unica condizione per una vera tranquillità,  per una vera assenza di dolore, ma anche di passione.
Il cristiano però non vive così.  La sua serenità non è data dalla consapevolezza che "tutto passerà" ma dalla fede in qualcosa che non passa mai. Qualcosa che, per sua natura, è eterno: l'amore di Dio per ciascuno di noi. Per ciascun uomo!
Se Dio mi ama perché dovrei essere preoccupato?
Se Dio è con noi, dice san Paolo, chi sarà contro di noi?
Tutto passa. L'anno scolastico, che a settembre si presentava come un'eternità, è agli sgoccioli. È tempo di tirare le somme e la nostra tranquillità,  lo sappiamo, è direttamente proporzionale all'impegno speso.
Non facciamo della nostra preghiera una richiesta di riparazione.  Dio non è il nostro tappabuchi. Non rendiamo ridicola la più bella storia d'amore che potremmo vivere.
Piuttosto chiediamo questo: di essere capaci di percepire sempre,  nelle piccole cose quotidiane,  l'infinito amore che lui ha per noi. Da qui la nostra tranquillità.

mercoledì 4 maggio 2016

Il soldato e la bambina

Ci piacerebbe pensare che l’immaginazione sia sempre in grado di superare la realtà; che ciò che si racconta di brutto sia relegato nel mondo dell’improbabile o dell’impossibile e che ciò che si racconta di bello sia uno stimolo per realizzare di più e di meglio. 
Ma purtroppo così non accade.
Basta mettere a confronto un racconto (reale?) ambientato durante la prima guerra mondiale ed un post apparso sulla pagina Facebook di un giovane salesiano di Aleppo in questi giorni.

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Un soldato stava andando in avanscoperta quando scorse un nemico, in perlustrazione anche lui.
Si nascose dietro una roccia e prese la mira. Ma nel mirino... inquadrò una bambina che stava giocando. Osservò ad occhio nudo e rivide il nemico. Pensò di essere stato abbagliato dal sole e riprese la mira. Ma ricomparve la bambina.
«E’ sua figlia», disse una voce dietro di lui.
Il soldato si girò e notò un angelo.
«E’ sua figlia. Devi scegliere: se spari rimarrà orfana e soffrirà per tutta la vita; se non spari rischi di morire tu, perché anche il tuo nemico ti sta puntando».
Il soldato si ricordò della sua unica bambina che lo aspettava a casa. Pensava a quanto avrebbe sofferto. Capì che se avesse sparato, non se lo sarebbe perdonato per tutta la vita. Accettò di affrontare il destino e con le lacrime agli occhi si preparò a morire. Ma il nemico, dall’altra parte, invece di sparare fece un cenno di saluto e se ne andò.
Il soldato, stupito, si voltò verso l’angelo.
L’angelo sorridendo gli disse: «Anche lui, nel suo mirino, ha visto tua figlia».

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Carissimi amici e salesiani in tutto il mondo vi scrivo dalla città di Aleppo, che attualmente sanguina a causa dell'odio generato dalla mancanza di amore e di pietà. Vi scrivo mentre le bombe e razzi di tutti tipo piovono dal cielo suoi abitanti della città; non ci sono parole che possono descrivere ciò che stiamo vivendo.
La morte viene seminata tra bambini e giovani, vecchi e anziani, uomini e donne. Sembra che la lotta non vuole risparmiare nessuno... l'unico discorso che viene fatto tra la gente... è quello sulla morte.
Ad Aleppo stiamo vivendo una ingiustizia, uno scandalo che resterà impressa sulla fronte dell'umanità intera. Siamo nelle mani del Signore.Pregate per noi
D. Pier Jabloyan 03.05.2016 / ore 13:09Aleppo - Siria

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Non è Facebook ad indicare l’ora esatta e il luogo del post. E’ proprio Don Pier. Quasi a voler sottolineare, con precisione certosina, il luogo e il minuto esatto in cui può ancora affermare di essere vivo. Perché ogni certezza è smarrita.
Questo grido straziante di Don Pier è accompagnato da due foto. In una di esse sono presenti dei giovani che guardano, gli occhi smarriti, verso il cielo: probabilmente stanno osservando le infernali macchine che portano la morte. Forse la loro.
Nell’altra foto un giovane tiene tra le braccia un bambino con il corpo dilaniato da una esplosione. Una “pietà” che nessun artista si impegnerebbe a ritrarre.
Non c’è spiegazione. Non c’è ragione. No! La ragione non esiste più.
Se pensiamo di non poter fare nulla, non rimaniamo indifferenti al grido di don Pier.
Una preghiera.
Perché Dio manifesti la sua giustizia. Perché Dio manifesti il suo amore.

martedì 12 aprile 2016

Le stelle marine

Una tempesta terribile si abbatté sul mare. Lame affilate di vento gelido trafiggevano l'acqua e la sollevavano in ondate gigantesche che si abbattevano sulla spiaggia come colpi di maglio, o come vomeri d'acciaio aravano il fondo marino scaraventando le piccole bestiole del fondo, i crostacei e i piccoli molluschi, a decine di metri dal bordo del mare.
Quando la tempesta passò, rapida come era arrivata, l'acqua si placò e si ritirò. Ora la spiaggia era una distesa di fango in cui si contorcevano nell'agonia migliaia e migliaia di stelle marine. Erano tante che la spiaggia sembrava colorata di rosa.
Il fenomeno richiamò molta gente da tutte le parti della costa. Arrivarono anche delle troupe televisive per filmare lo strano fenomeno. Le stelle marine erano quasi immobili. Stavano morendo.
Tra la gente, tenuto per mano dal papà, c'era anche un bambino che fissava con gli occhi pieni di tristezza le piccole stelle di mare. Tutti stavano a guardare e nessuno faceva niente.
All'improvviso, il bambino lasciò la mano del papà, si tolse le scarpe e le calze e corse sulla spiaggia. Si chinò, raccolse con le piccole mani tre piccole stelle del mare e, sempre correndo, le portò nell'acqua. Poi tornò indietro e ripeté l'operazione.
Dalla balaustrata di cemento, un uomo lo chiamò."Ma che fai, ragazzino?".
"Ributto in mare le stelle marine. Altrimenti muoiono tutte sulla spiaggia" rispose il bambino senza smettere di correre.
"Ma ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia: non puoi certo salvarle tutte. Sono troppe!" gridò l'uomo. "E questo succede su centinaia di altre spiagge lungo la costa! Non puoi cambiare le cose!".
Il bambino sorrise, si chinò a raccogliere un'altra stella di mare e gettandola in acqua rispose: "Ho cambiato le cose per questa qui".
L'uomo rimase un attimo in silenzio, poi si chinò, si tolse scarpe e calze e scese in spiaggia. Cominciò a raccogliere stelle marine e a buttarle in acqua. Un istante dopo scesero due ragazze ed erano in quattro a buttare stelle marine nell'acqua. Qualche minuto dopo erano in cinquanta, poi cento, duecento, migliaia di persone che buttavano stelle di mare nell'acqua.
Così furono salvate tutte.

Ci abbiamo rinuniciato. A cambiare il mondo, ci abbiamo rinunciato.
Le cose, da uno sguardo attorno, si sono messe talmente male che una soluzione sembra sempre meno probabile. Tutti ne parlano. Guardiamo i telegiornali: non c'è verso che qualcosa dia un barlume di speranza. Si ruba, si inganna, si imbroglia, si frega, si calunnia, si distrugge, si deturpa, si abbandona, si sbarrano porte, si costruiscono muri, si prova rancore, si odia, si uccide...
E torna impietosa la questione: perché dovrei fare qualcosa di buono per qualcuno quando tutti (forse anche quel qualcuno) se ne infischiano degli altri.
Siamo troppi e sono troppi i problemi perché possiamo sperare di cambiare le cose.
Ma se ci si limitasse a pensare di cambiare la condizione anche di una sola persona, attivando un sistema di positivo contagio, che straordinaria reazione a catena potremmo innescare!

"E se ognumo fa qualcosa, allora possiamo fare molto!", ripeteva con un sorriso padre Pino Puglisi, anche quando la situazione sembrava pessima.
Il gioco della vita è iniziato da un po', cari ragazzi. E se qualcosa o qualcuno ha voluto che ci fermassimo per un giro, è il momento di riprendere le carte in mano, rimboccarci le maniche e provare a "cambiarele cose". Non per tutti, (non chiediamo a noi stessi una "mission impossible"), per uno solo. Quello che Gesù ci indicava come destinatario obbligato del nostro amore: il prossimo!
Per cambiare il mondo basterebbe che qualcuno, anche piccolo, avesse il coraggio di incominciare.

martedì 9 febbraio 2016

Gli eroi della "foresta che cresce"

Le storie belle meritano di essere raccontate.
Come quella degli "eroi della foresta che cresce" che lavorano nel reparto di cardiologia dell'ospedale Paolo Borsellino di Marsala.

Clicca sul link che segue:

La buona sanità e gli " eroi della foresta che cresce ".

sabato 23 gennaio 2016

Le lenzuola sporche

Da che punto guardi il mondo tutto dipende... recitava, anni fa, un tormentone che per alcuni mesi occupò i primi posti di molte classifiche musicali.
Ma se il nostro sguardo non si limita solo alle cose, scruta anche le persone ed il loro operato, facendone seguire anche giudizi affrettati o avventati, allora la questione diventa molto seria.

Una coppia di sposi novelli andò ad abitare in una bella zona molto tranquilla della città. Una mattina, mentre bevevano il caffè insieme, il giovane marito si accorse, guardando attraverso la finestra aperta, che una vicina stendeva il bucato sullo stendibiancheria dal terrazzo e disse: "Ma guarda com'è sporca la biancheria di quella vicina! Non è capace di lavare? O forse, ha la lavatrice vecchia che non funziona bene? Oppure dovrebbe cambiare detersivo!... Ma qualcuno dovrebbe dirle di lavare meglio! O dovrebbe insegnarli come si lavano i panni!". La giovane moglie guardò e rimase zitta.
La stessa scena e lo stesso commento si ripeterono varie volte, mentre la vicina stendeva il suo bucato al sole e al vento perché si asciugasse.
Dopo qualche tempo, una mattina l'uomo si meravigliò nel vedere che la vicina stendeva la sua biancheria pulitissima e disse alla giovane moglie: "Guarda, la nostra vicina ha imparato a fare il bucato! Chi le avrà detto come si fa?".
La giovane moglie gli rispose: "Caro, nessuno le ha detto e le ha fatto vedere.
Semplicemente, questa mattina, io mi sono alzata presto come sempre per prepararti la colazione, ho preso i tuoi occhiali e ho pulito le lenti!".

...Ed è proprio così anche nella vita...
Non solo "il punto da cui guardiamo il mondo" è importante per farci comprendere la soggettività ed il limite del nostro giudizio, ma anche il modo in cui guardiamo... che spesso fa precedere un pre-giudizio.
Se già in partenza siamo convinti di essere un po' meglio degli altri e qualche gradino più in alto, diventa quasi naturale assumerci il ruolo di giudici...
Non così ci insegna Gesù che, attraverso uno dei suoi famosi esempi paradossali ci dice:
"Prima di togliere la pagliuzza nell'occhio di tuo fratello, togli la trave che è nel tuo occhio"!
Spesso, più o meno inconsapevolmente, il male che vediamo negli altri è già dentro di noi.
Ammetterlo è difficile, ma pulire le lenti con cui guardiamo il mondo non può farci che bene!

giovedì 14 gennaio 2016

Il sacco di patate

Perdonare qualcuno, che ci ha fatto un torto, è fuori moda.
Siamo convinti che in una società come la nostra, dove si va avanti a gomitate, uno dei principi base sia “farsi rispettare”, non farsi calpestare. E chi ci manca di rispetto, in un modo o in un altro, dovrà pagare. Lo insegniamo persino ai nostri figli, ai nostri bambini: “Fatti rispettare, non essere troppo buono perché i buoni spesso vengono scambiati per fessi. Non fatti mettere i piedi sulla testa!”.
Crescendo, questo principio si trasforma in “rancore”.

Un giorno il saggio diede al discepolo un sacco vuoto e un cesto di patate.
"Pensa a tutte le persone che hanno fatto o detto qualcosa contro di te recentemente, specialmente quelle che non riesci a perdonare. Per ciascuna, scrivi il nome su una patata e mettila nel sacco".
Il discepolo pensò ad alcune persone e rapidamente il suo sacco si riempì di patate.
"Porta con te il sacco, dovunque vai, per una settimana" disse il saggio. "Poi ne parleremo".
Inizialmente il discepolo non pensò alla cosa. Portare il sacco non era particolarmente gravoso. Ma dopo un po', divenne sempre più un gravoso fardello. Sembrava che fosse sempre più faticoso portarlo, anche se il suo peso rimaneva invariato.
Dopo qualche giorno, il sacco cominciò a puzzare. Le patate marce emettevano un odore acre. Non era solo faticoso portarlo, era anche sgradevole.
Finalmente la settimana terminò. Il saggio domandò al discepolo: "Nessuna riflessione sulla cosa?".
"Sì Maestro", rispose il discepolo. "Quando siamo incapaci di perdonare gli altri, portiamo sempre con noi emozioni negative, proprio come queste patate. Questa negatività diventa un fardello per noi, e dopo un po', peggiora."
"Sì, questo è esattamente quello che accade quando si coltiva il rancore. Allora, come possiamo alleviare questo fardello?".
"Dobbiamo sforzarci di perdonare".
"Perdonare qualcuno equivale a togliere una patata dal sacco. Quante persone per cui provavi rancore sei capace di perdonare?".
"Ci ho pensato molto, Maestro, disse il discepolo. "Mi è costata molta fatica, ma ho deciso di perdonarli tutti".

Diciamolo sinceramente: perdonare qualcuno, soprattutto quando ciò che ha commesso ha una particolare gravità, non è umano. E’ sovraumano. Trascende le nostre capacità naturali, contraddice il nostro istinto. Questo è ancora più evidente se leggiamo la definizione di “perdono” sul dizionario.

Perdonare: Non tenere in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando a propositi di vendetta, alla punizione, a qualsiasi possibile rivalsa, e annullando in sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa o del danno (Treccani, dizionario online).

Rinunciare alla vendetta, alla rivalsa, potremmo anche riuscirci... ma annullare ogni  risentimento, ci sembra proprio troppo.
Anche per piccoli torti, siamo a volte in grado di portarci dentro emozioni negative generate dal rancore per giorni, mesi, a volte anche anni. Ma quel peso grava tutto sulle nostre spalle e solo noi possiamo decidere di metterlo giù.
Quando avvertiamo la gravità di una situazione simile, forse non dovremmo chiederci solo se la persona che ha commesso un torto merita il nostro perdono oppure il nostro disprezzo. Forse dovremo chiederci se noi meritiamo di vivere con questo carico di sofferenza addosso oppure con la leggerezza della libertà.
Perché il perdono ci rende liberi.

Il calendario dell'avvento

Avvento, tempo di attesa. Tempo di attese. Sono tante le attese che ognuno di noi porta nel proprio cuore. C’è chi spera in un domani miglio...